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Referendum, non andare a votare non è un attentato alla democrazia

Per la sinistra l’invito all’astensione fatto dalle forze di governo sarebbe "un tradimento dei principi costituzionali", ma è falso
di Corrado Ocone giovedì 8 maggio 2025

3' di lettura

A iniziare le danze è stato il segretario di +Europa Riccardo Magi in un’intervista al Corriere della sera. Subito gli ha fatto eco Elly Schlein, ma state pure sicuri che da qui all’8 e al 9 giugno, data dei rerendum, gli interventi dei leader della sinistra seguiranno tutti lo stesso canovaccio. Stando a quanto affermato ieri dalla leader del Pd, l’invito all’astensione fatto dalle forze di governo sarebbe «un tradimento dei principi costituzionali che fissano il voto come un “dovere civico”». Falso! È vero che questo concetto viene ribadito spesso nel discorso pubblico ogni qual volta si stigmatizza l’alta quota di astensionismo alle elezioni politiche, ma che trovi riscontro nella dottrina non si può certo dire. Ora, che alte percentuali di non voto segnalino un malessere diffuso nel corpo elettorale, e che esso vada interpretato dalle forze politiche, nessuno può negarlo. Esso però, in un’ottica rigorosamente liberale, non può essere considerato un «attentato alla democrazia».

Per due motivi: in primo luogo, perché in molti casi anche il non voto è a suo modo un voto, cioè una scelta democraticamente consapevole di chi trova insufficiente l’offerta politica propostagli; in secondo e più importante luogo, perché il voto è un diritto e non un dovere. In democrazie di più solida tradizione, come gli Stati Uniti, questo concetto è stato sempre ben chiaro e non ci si è mai allarmati più di tanto, in passato, quando si sono recati alle urne in pochi in tornate elettorali anche importanti. Al contrario, in altri Paesi, come l’Italia, il concetto cozza con una mentalità sedimentatasi negli anni e che ha fatto perdere di vista le distinzioni concettuali su cui si è fondata la politica in età moderna. In sostanza, potremmo dire che chi non ritiene il voto un dovere ha una visione della politica in cui la “libertà negativa” occupa un posto prioritario; mentre gli altri, in una vasta gamma che va dai fautori del democraticismo fino a socialisti e comunisti, ritengono che sia la «libertà positiva» il principio a cui deve rispondere in prima istanza la politica. Che significhi ciò in concreto, lo potremmo dire in poche parole: il liberale ritiene che il potere sia un mezzo mentre il fine siano gli individui, ai quali le istituzioni debbono garantire il più ampio spazio privato possibile per la realizzazione dei loro particolari obiettivi o progetti di vita; mentre gli altri ritengono che la politica debba riempire ogni spazio e l’individuo debba essere subordinato allo Stato e partecipare necessariamente alla vita pubblica della comunità.

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È l’ideale, quest’ultimo, della libertà come partecipazione, come cantava Giorgio Gaber: un ideale che, se aveva un senso e una importanza nella polis greca (che fra l’altro si reggeva sull’esclusione di un’ampia fetta di cittadini dallo spazio pubblico), si è concretamente risolto in età moderna in una mobilitazione perenne delle masse e in un conformismo sociale quasi sempre funzionale al potere di turno. Ovviamente, la distinzione qui fatta è puramente categoriale, come hanno avvertito sia i teorici della “libertà dei moderni” come Benjamin Consant sia quelli delle “due libertà” come Isaiah Berlin. Ciò significa che i due principi possono anche coesistere, come di fatto avviene nelle società occidentali, ma solo se si ha bene in mente a quale dei due tocchi il primato ontologico, diciamo così. I diritti correttamente intesi dovrebbero perciò essere concepiti solo come garanzie, cioè come l’allargamento dello spettro delle possibilità di scelta, ma non possono diventare doveri. La coincidenza di diritti e doveri, fino all’annullamento nella “volontà generale” di ogni forma di vita privata o “libertà negativa”, è stata teorizzata, con non pochi salti logici, da un solo grande filosofo del passato, Jean Jacques Rousseau. Che le sue idee siano state all’origine delle degenerazioni democratiche, e persino dei totalitarismi successivi, è ormai acclarato nel mondo degli studi. 

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