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Michele Serra, la piazza degli ignoranti riscrive la storia greca e Beethoven

di Marco Patriccelli mercoledì 19 marzo 2025

3' di lettura

Tra le poche idee ma confuse della sinistra polifonica e ondivaga sui temi della guerra e della pace, una certezza almeno c’è: l’arruolamento. Non in divisa, ma nelle fila degli intellettuali dalla parte “giusta”, non in uniforme ma uniformati al pensiero unico comunque dominante. Un palco, un microfono, la claque, e il gioco è fatto. Se poi c’è anche una spruzzata di cultura “alta” ammannita dall’alto, a uso e consumo della piazza, ancora meglio. Una parte per il tutto e il verosimile come vero. Messa così, non fa una grinza nella nobile concione di sabato: i greci inventarono la democrazia e Atene era una democrazia. Basta prendere un passaggio del discorso di Pericle agli ateniesi, lo si legge con voce impostata ed emozionalmente partecipe come quella di Fabrizio Bentivoglio, e tutto sembra appositamente scritto ieri per oggi, e ogni passaggio diventa una frustrata morale e politica alla contemporaneità.

PERICLE SU MISURA
Tutto bello, tutto etico, applausi, osanna, Pericle santo subito nel giorno del giubileo a dodici stelle. Poi magari si contestualizza un testo che è raccolto e raccontato da Tucidide, risalente al 461 a.C., e magari le cose non stanno proprio come sembrano. Atene era certamente molto meglio di altre realtà e in anticipo sui tempi, ma meno del 10% della popolazione decideva per il restante 90%; e parliamo di un sistema strutturato in città-stato non di rado in guerra tra di esse (fratricide, considerato che erano tutti greci) salvo coalizzarsi in caso di pericolo esterno. Pericle dice, con le parole di Tucidide, qualcosa di elevato che fa il facile gioco della piazza ma ne dice pure altre che suonerebbero fuori tema e fuori contesto della forzata attualizzazione politica. Che infatti non vengono recitate, come l’essere impegnati in una guerra “giusta”, il richiamo all’identità di popolo e di territorio, la missione della superiorità culturale, materiale e politica ateniese e la sfumatura con la tirannide preferibile comunque al resto, il ruolo e la sottomissione delle donne. È tutto frutto dei tempi e di una storia che non si ripete mai, basta saperlo, altrimenti ognuno trova sempre quel che cerca. Ma funziona. La folla dannunzianamente – ma senza l’aborrito d’Annunzio – è presa e si piega nella ola come un mare di giunchi, vellicata alla pancia con le parole che vuol sentirsi dire per riconoscervisi.

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LA VERSIONE DI JOVANOTTI
E che dire della clip di Jovanotti dedicata all’Inno europeo e proiettata sul grande schermo del palco della mobilitazione di Roma? Sublime, nel kitsch e nella vuotezza. Il cantante che a Belve disse autocompiacendosi che Mozart e Tony Effe fanno lo stesso mestiere e quindi sono colleghi, comprendendo ovviamente anche sé stesso, si è avventurato in una mirabile esegesi dell’Inno alla gioia di Ludwig van Beethoven su versi di Friedrich Schiller (An die Freude). Una melodia, l’ha definita Lorenzo Cherubini, insomma una specie di Serenata rap (o Rep) un po’ vecchia (due secoli), che per ascoltarla ti devi sorbire ben tre movimenti della 9ª Sinfonia: potresti pure annoiarti come se suonassero una ninna-nanna (ma non quella di Brahms), e meno male che «verso la fine arriva». Più che gioia, una liberazione (verrà buona per il 25 aprile). Meno male che, ha confessato, una volta è andato pure a un concerto, sofferente sulla sedia in attesa che la “canzoncina” beethoveniana finalmente arrivasse così la poteva pure canticchiare perché, diamine, l’aveva già sentito, quell'inno dell'Europa. Lo sfigato misantropo Beethoven, invece, non l’ascoltò mai perché era totalmente sordo. Non udente, avrebbero detto in piazza a Roma, perché sordo non si dice e non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire. Di Tucidide, infatti, non è stato citato questo passo: «Così poco faticosa è per i più la ricerca della verità e molti si volgono volentieri verso ciò che è più a portata di mano».

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