Chi invita i propri elettori ad astenersi ai referendum, come ha fatto Forza Italia e come intendono fare Fdi e Lega, è un nemico della democrazia. Un’accusa di fascismo sotto altro nome, dunque, quella che ci accompagnerà nelle prossime settimane. L’8 e il 9 giugno si voteranno i cinque quesiti abrogativi per dare più facilmente la cittadinanza italiana agli stranieri e per rendere un po’ più rigido il mercato del lavoro, e, come sempre, la consultazione sarà valida solo se la maggioranza degli elettori si presenterà ai seggi. Elly Schlein punta sul raggiungimento del quorum (ieri ha ribadito che «il Pd è impegnato a far salire la partecipazione») e il suo partito ha iniziato a martellare, assieme al resto dell’opposizione.
Il tono e gli argomenti sono questi: «L’invito all’astensione è il segnale di una profonda cultura antidemocratica» (Arturo Scotto, Pd); «Che il partito del presidente del Consiglio dia indicazione di non andare a votare è una cosa grave e pericolosa» (Maurizio Landini, Cgil); «È una destra egoista e irrispettosa della democrazia» (Nicola Fratoianni, Avs); «La destra boicotta la democrazia» (Giovanni Barbera, Rifondazione comunista).
Fingono tutti di ignorare ciò che sanno benissimo: con l’eccezione dei Radicali, non c’è partito italiano che non abbia puntato sull’astensionismo ai referendum abrogativi ogni volta in cui gli è convenuto. Talvolta è stato fatto in modo strisciante, evitando di dare pubblicità alla consultazione e facendo passare a tesserati e simpatizzanti, tramite i propri rappresentanti sul territorio, il messaggio che, anziché mettere la croce sul «no», sarebbe stato meglio restare a casa e sommare il proprio “non voto” a quello degli astenuti abituali. Talaltra, c’è stato un appello coram populo.
Ci fu il caso di Bettino Craxi, certo, che nel 1991 invitò gli italiani ad «andare al mare» quella domenica di giugno, anziché partecipare al referendum che chiedeva l’abrogazione delle preferenze multiple: gli andò male, votò il 62,5% degli elettori. Ma se ne sono contati molti altri, con protagonisti anche gli indignati di questi giorni.
Nel giugno del 2003, quando si votò il referendum sull’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, i Ds sostennero che «astenersi è un diritto». «Siamo contrari ad andare a votare», disse il loro segretario, Piero Fassino, «perché il referendum è uno strumento sbagliato».
Nel 2009 si votò ancora per cambiare, tramite tre referendum, la legge elettorale. In favore dell’astensione, quella volta, si espressero “Sinistra e Libertà” e Rifondazione Comunista, nella quale già militava Fratoianni. «Il referendum deve fallire», si leggeva nell’appello del Prc, «attraverso la non partecipazione al voto o il rifiuto della scheda».
Nell’aprile del 2016, per il quesito sulle trivelle, l’invito giunse invece dal Pd. Lo guidava Matteo Renzi, che era anche premier e spiegava: «La posizione dell’astensione a un referendum che ha il quorum è sacrosanta e legittima. Non riconoscerlo è sbagliato e profondamente ingiusto». Il presidente del partito era Matteo Orfini, pure lui convinto della correttezza della scelta: «Credo che l’astensione sia uno strumento naturale per un referendum che prevede un quorum». Quella volta, come nel 2003 e nel 2009, la scelta pagò bene: l’astensione politica di sinistra si sommò a quella “fisiologica” e il quorum non fu raggiunto.
Orfini oggi è deputato del Pd e assiste impassibile ai suoi compagni di partito che accusano di «profonda cultura antidemocratica» chi sostiene simili cose. Il solito doppio standard, insomma. Ma se tutti, prima o poi, hanno puntato sul non voto come legittima scelta contemplata dall’articolo 75 della Costituzione, solo i partiti post-comunisti riescono a dipingere come una grave minaccia per la democrazia chi difende la tesi che, solo pochi anni prima, era la loro.