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Urne vicine, i compagni alzano i decibel

La scelta di Meloni sul referendum (alle urne sì, ma senza ritirare le schede) è la stessa dei riformisti del Pd. Ma a sinistra parte la reazione scomposta
di Mario Sechi martedì 3 giugno 2025

3' di lettura

Giorgia Meloni andrà al seggio ma non ritirerà le schede dei referendum, è una delle opzioni a disposizione dell’elettore nella consultazione dell’8 e 9 giugno: esercito il mio diritto di andare a votare, ma sottolineo che nessuno dei quesiti merita il mio voto, è un giudizio politico forte, più efficace della semplice astensione e non concorre alla formazione del quorum.

È una scelta che fanno anche gli esponenti della sinistra: i riformisti del Partito democratico l’hanno messo nero su bianco in una lettera a Repubblica Giorgio Gori, Lorenzo Guerini, Marianna Madia, Pina Picierno, Lia Quartapelle e Filippo Sensi: «Voteremo sì al referendum sulla cittadinanza e sì al quesito sulle imprese appaltanti. Ma non voteremo gli altri 3 quesiti, perché la condizione del lavoro in Italia passa dal futuro, non da una sterile resa dei conti con il passato». Salvano il quorum, ma esprimono un totale dissenso su temi che non considerano degni di un sì o un no.

Tutto dimenticato. La mossa della premier ha innescato la solita reazione scomposta della sinistra smemorata: è un attacco alle istituzioni, una truffa, «una ulteriore conferma, se mai ce ne fosse bisogno, del disegno di compressione degli spazi democratici». In un batter di ciglia sono giunti al ritornello del regime meloniano, del nuovo fascismo, del «disegno eversivo delle destre». È con questo linguaggio da notte della democrazia, con il fantasma del Duce a Palazzo Chigi, il Pd e i suoi alleati fanno un’opposizione da invasione barbarica, ogni giorno alzano il tiro, eccitano gli animi, usano la piazza in nome di una «lotta» che gli spiriti più bellicosi interpretano come un via libera a tutto, anche alle minacce di morte ai figli dei leader del centrodestra. Il prossimo banco di prova lo avremo tra pochi giorni, il 7 giugno, con la manifestazione per Gaza fissata non casualmente alla vigilia del voto sul referendum. È un escamotage per tenere alta non l’attenzione, ma la tensione.

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Su Gaza si sta consumando una strumentalizzazione pericolosa, siamo al ribaltamento delle responsabilità della guerra, mentre in gioco c’è l’esistenza di Israele, la memoria della strage del 7 ottobre e la minaccia contro gli ebrei in tutto il mondo. È la cronaca di questi ultimi giorni che parla di sinagoghe incendiate (in Francia), di molotov scagliate contro gli ebrei (in America), di negozi con gli adesivi che definiscono gli ebrei persone non gradite (in Italia). Di fronte a tutto questo, si ribalta la storia, si minacciano le voci che difendono Israele e denunciano l’antisemitismo dilagante, si lanciano accuse folli al governo italiano. Tutto questo finisce nel calderone della “disinformatia” quotidiana, dove la fonte principale è... Hamas, un gruppo di tagliagole che ancora tiene in ostaggio i cittadini ebrei inermi, vittime di una violenza indicibile. La piazza alla vigilia del referendum è questo cocktail esplosivo, è la scelta di far detonare questo magma che tracima nel cospirazionismo, nella farneticazione, nell’esaltazione della menzogna.

Se il principale partito d’opposizione usa lo spettro del fascismo contro il centrodestra, butta in piazza temi roventi della politica estera per fini interni, le possibilità di de-escalation del dibattito sono pari a zero, perché l’obiettivo strategico da qui alle prossime elezioni è quello di mostrificare l’avversario, delegittimarlo affermando che non è democratico, che addirittura insegue obiettivi eversivi, e dunque è un usurpatore del potere che va rovesciato. Si tratta di un messaggio devastante che punta non solo sui ministri e i parlamentari, ma mette alla gogna gli intellettuali e i giornalisti non allineati al verbo progressista. Non è solo un problema di «leoni da tastiera», è la costruzione di un clima politico cupo, un flusso di veleno che passa dai social media alla televisione e alla radio, è diventato l’ingrediente di molti talk show televisivi che hanno bisogno dello scontro politico radicale per tenere alta l’audience.

Lo schema è collaudato: partecipi ai dibattiti, ma quasi sempre sei in posizione di netta minoranza, con i decibel e le interruzioni che ti impediscono di esprimere un’idea compiuta. Il finto pluralismo è salvo, il libero dibattito è morto.

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