C’è un nuovo papa: il mondo se ne è accorto e persino in Vaticano se ne stanno rendendo conto, regolandosi di doverosa conseguenza. Nella Conferenza episcopale italiana e nel suo quotidiano Avvenire, invece, nulla è cambiato.
Anzi: mentre prima certi ardori progressisti erano tenuti a bada dalla consapevolezza che c’era un ottimo rapporto personale tra Francesco e Giorgia Meloni, ora è sfida aperta al governo. Parte dall’alto, ovviamente.
Leone XIV ha cose più importanti da seguire e il suo sguardo copre tutto il mondo, entro fine mese incontrerà la premier («Dovrei vederlo nelle prossime settimane», ha detto lei alla festa per i 25 anni di Libero), ma Matteo Zuppi, presidente della Cei, ha deciso che la priorità è questa. Dieci giorni fa, nella sua Bologna, ha manifestato in pubblico «delusione per la scelta del governo di modificare in modo unilaterale le finalità e le modalità di attribuzione dell’Otto per mille di pertinenza dello Stato», ed è stato il segnale di via libera.
È una storia che va avanti da anni. Le firme sulla casella della Chiesa sono sempre meno, mentre aumentano quelle in favore della diretta gestione statale, che consente al contribuente di scegliere la destinazione finale della propria quota. È una concorrenza tutt’altro che agguerrita, quella dello Stato, e lo dimostra il fatto che quest’ultimo non faccia alcuna pubblicità in favore dell’opzione che lo favorisce. Eppure, già il fatto che tale possibilità esista basta ad attrarre consensi crescenti. Al resto provvedono i vescovi che usano i soldi dell’Otto per mille per finanziare le imprese di Luca Casarini.
Zuppi ritiene che il governo debba “rimediare” in qualche modo. Lo aveva già detto in privato agli esponenti dell’esecutivo, e l’altro giorno ha voluto portare la diatriba sotto gli occhi di tutti.
Un passo avanti in favore della trasparenza, se non altro. Trasparente è anche la linea di Avvenire, ormai sovrapponibile a quella di Repubblica. Ieri la suggellavano due commenti. Uno lo ha firmato lo storico Agostino Giovagnoli, tra i fondatori di Sant’Egidio: la comunità di Andrea Riccardi, alla quale sono vicini lo stesso Zuppi e l’arcivescovo progressista Vincenzo Paglia, che Leone XIV ha appena rimosso dalla guida della Pontificia accademia per la Vita per raggiunti limiti di età. Dopo aver pianto per i referendum falliti («non si possono ignorare le questioni di cui sono espressione...»), Giovagnoli accusa il governo di aver blindato in parlamento il decreto Sicurezza. All’interno del quale c’è (parole sue) «l’inquietante articolo 31, che consente a chi governa di autorizzare la costituzione di gruppi terroristi». Quindi avverte i lettori che la separazione delle carriere dei magistrati «si ispira a una vecchia proposta di Almirante» e «rischia di trasformare i pubblici ministeri in “avvocati della polizia”». È il linguaggio dell’apostolo Casarini che conquista gli accademici.
Cosa sia la repressione securitaria, peraltro, il professor Giovagnoli lo sa bene: è membro del comitato scientifico dell’Istituto Confucio dell’Università del Sacro Cuore di Milano, sponsorizzato dalla dittatura cinese, e ha difeso il contestato (anche all’interno della Chiesa) accordo siglato dal Vaticano con Pechino durante il pontificato di Bergoglio.
L’altra invettiva porta la firma di Renato Balduzzi, che fu ministro della Salute nel governo Monti e deputato di Scelta Civica. Consola la sinistra scrivendo che ai referendum dell’8 e 9 giugno «non c’è stato qualcuno che ha “vinto” e qualcun altro che ha “perso”», perché, «anche nell’esercizio dei diritti politici, ciò che conta (evocando De Coubertin) è partecipare».
Così, con inconsapevole comicità, il foglio della Cei condanna l’astensione vent’anni dopo il referendum sulla procreazione assistita, al quale la Cei chiese di non votare. Allora ciò che contava non era partecipare: infatti quella era una Chiesa che vinceva e pesava, a differenza di questa.