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Se il sessista è compagno tutto è subito perdonato

di Giovanni Sallusti martedì 17 giugno 2025

3' di lettura

In questi giorni il bel mondo della sinistra politico-mediatico-editoriale si riconosce (a sua insaputa) nella conclusione cui approda il Tractatus Logico-Philosophicus di Ludwig Wittgenstein. «Su ciò di cui non si può parlare si deve tacere». Tacere sul becero sessismo del compagno Riccardo Magi, segretario di +Europa (più che un partito politico, un caso da manuale di sindrome di Stoccolma). Tacere sugli insulti del compagno Matteo Ricci a una giornalista Rai, accusata tecnicamente di essere “serva” (siamo ben oltre le “iene dattilografe” di Togliatti, e soprattutto Ricci non è Togliatti). Tacere, sempre, quando qualche esponente dei Buoni e dei Giusti rompe le tavole della legge dei Buoni e dei Giusti, perché è esattamente “ciò di cui non si può parlare”: la contraddizione interna, l’autogol, l’errore dell’amico.

È l’amichettismo, questo succedaneo frivolo dell’egemonia gramsciana, l’unica ideologia che è rimasta alla sinistra. E quindi gli amici si coprono, sempre, anche (anzi, a maggior ragione) quando si sono già coperti da soli di ridicolo. Riccardo Magi, uno che voleva essere Pannella e non è riuscito nemmeno a essere un erede decente della Bonino, è colui che al Gay Pride romano ha ostentato il “geniale” cartello arcobaleno dedicato alla Meloni. Faccia della premier riverniciata con lo stilema Lgbtq (non ci ricordiamo le ultime consonanti aggiunte, né vogliamo farlo) e slogan intellettuale: «Amica dei Dicktators». “Dick” risaltava come sintagma a sé, e notoriamente è la traduzione inglese, diciamo ruspante, dell’organo sessuale maschile. La conclusione dell’assioma magiano sull’oggetto dell’amicizia è chiara, e sembra il risultato di una serata etilica tra Harvey Weinstein e un amico più maschilista, supera in grettezza sessista qualunque ipotetico rutto del bar sovranista.

A parti invertite, il collettivo Non Una di Meno avrebbe convocato una mobilitazione di due giorni in difesa del corpo delle donne (con la tessera giusta), Repubblica avrebbe stampato un allegato sul ritorno del patriarcato fascista con intervista di due pagine a Paola Cortellesi, Laura Boldrini avrebbe sparato dieci post contro il maschio bianco (qui invece si è limitata a celebrare la «folla colorata, gioiosa e combattiva»). Altro giro, altra saga dell’ipocrisia. Matteo Ricci, candidato alla presidenza delle Marche per il centrosinistra, sulla carta volto dell’area “riformista” dem (ma esiste ancora?), ha perso qualunque freno inibitorio di fronte all’Inaccettabile: una giornalista che gli poneva un quesito non gradito. La collega è Manuela Iatì di Far West, trasmissione in onda su Rai3 (rete colonizzata dalla sinistra per decenni, en passant). Costei ha chiesto lumi sull’inchiesta Affidopoli, che coinvolge alcuni vertici della giunta di Ricci quando era sindaco di Pesaro (ma non lui personalmente). Reazione del sincero democratico: «Capisco che non sapete come fare in questa campagna elettorale per le Regionali, ma basta».

E già è uno strafalcione greve, perché insinua (anzi, dichiara) che la cronista non stia facendo il suo mestiere, bensì propaganda. Ma il veleno è nella coda: «Siete al servizio di Fratelli d’Italia». Cioè: un politico accusa una giornalista (donna, il che stando alla loro dogmatica Woke è doppiamente grave) di essere serva di un partito, solo per avergli rivolto una domanda. Fosse stato Salvini, o Gasparri, o Donzelli, l’Usigrai avrebbe proclamato tre giorni di sciopero, la collega avrebbe già firmato il contratto per un’ospitata fissa da Fazio, sindacati e Ordine dei Giornalisti avrebbero diffuso vibranti appelli in difesa dell’articolo 21 della Costituzione. Voci a sinistra che hanno criticato il cartello di Magi o l’intemerata di Ricci: zero. Le stesse che presero le distanze dalla tirata di capelli di Romano Prodi a un’inviata di Quarta Repubblica. Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere. Fino alla prossima predica, dal prossimo pulpito immaginario.

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