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L'affare di Bertinotti con Mao Tse Tung

di Luca Puccini venerdì 4 luglio 2025

4' di lettura

E Fausto Bertinotti s’è disfatto di Mao. D’accordo, non è proprio un mea culpa gridato ai quattro venti (anche se l’ex presidente della Camera, nel secolo in corso, una certa opera di revisionismo sull’operato e le vittorie del comunismo nel secolo scorso l’ha pure dimostrata e gliene va dato atto: tra i kompagni l’autocritica è merce rara): però il gesto è di per sè evocativo. Via, giù dalle pareti, quelle due serigrafie firmate da Andy Wharol e raffiguranti l’ex presidente del partito comunista più longevo del pianeta (quello cinese) a casa dell’ex leader di Rifondazione comunista non ci stanno più. Il Fausto le ha vendute. In blocco, assieme ad altre opere della “collezione Bertinotti”, racimolando un gruzzoletto mica da ridere perché puoi anche aver passato una vita sotto l’insegna della falce col martello, ma business-is-business è una legge del libero mercato che vale per chiunque. Il motivo per cui Bertinotti (e consorte, la collezione privata non era soltanto sua ma anche della moglie Lella) abbia deciso di rivolgersi alla casa d’aste di Milano Finarte per far bandire parte del suo “patrimonio artistico” non lo sappiamo: ma non ci interessa neanche e va bene così perché, dopotutto, son fatti suoi e non deve renderne conto a nessuno (probabilmente questo è l’aspetto più liberale di tutta la vicenda: e vivaiddio è anche la garanzia migliore di un occidente non ideologizzato in un certo modo). Quanto, invece, abbia incassato è un dato pubblico: oltre 300mila euro, 106mila euro per una delle due stampe (entrambe donate dal banchiere Mario D’Urso, ossia da una delle figure più di spicco del jet-set romano di quegli anni là e, non a caso, amico personale dei Bertinotti), 80mila per l’altra e il restante per i vari lotti minori. Una cifra che non entrerà nelle tasche di Bertinotti per intero: tocca decurtarla dei proventi destinati alla Finarte e del compenso per l’intermediario che ha curato la vendita della coppia (è la procedura standard, niente di strano). Al netto di questo, l’incasso finale dovrebbe aggirarsi intorno ai 250mila euro.

Che proprio il salario medio di un operaio non sono: ma non scadiamo nella polemica facile (e pure banalotta), l’aspetto economico indigna no. E (infatti) poco male, il successo per l’operazione ha già segnato risultati migliori di quelli realizzati da Rifondazione nelle elezioni politiche del 2008 (le prime dell’era post-bertinottiana): un po’ perché i due Wharol-Mao partivano da una base d’asta che oscillava tra i 20 e i 30mila euro (e quindi il rialzo c’è stato, eccome), un po’ perché i rilanci son stati tanti sia tra i presenti in sala che tra gli appassionati che assistevano da remoto sia tra i partecipanti internazionali, e un po’ perché il catalogo ha inglobato addirittura altro.

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Per esempio due lavori del pittore romano Piero Dorazio, che erano stati donati ai Bertinotti per festeggiare i loro 32 anni di matrimonio, sul retro di uno c’era addirittura la dedica “Auguri per Lella, leggiadra colonna del suo compagno, custode e promotore delle nostre speranze” (7mila euro di incassi l’uno); oppure un cavallo in bronzo realizzato dallo scultore abruzzese Mario Ceroli (venduto a 2. 800 euro); o ancora un vaso dell’artista Luca Maria Patella (2mila euro), una tela di Mario Schifano (15mila euro), il capolavoro Camion della poliedrica Titina Masselli (11.500 euro) e la scultura La gabbia d’oro di Giosetta Fioroni (altri 16.
500 euro). Epperò, senza girarci attorno, senza pensare al ricavato che è pure una questione marginale, sono quei due ritratti di Mao, occhi piccini, labbra serrate, pop quanto basta, iconici in tutto il resto, uno blu su sfondo verde e l’altro (irrimediabilmente) rosso, ad aver richiamato l’attenzione.

Sì, è vero: per conto di Bertinotti Georgia Bava, che è la responsabile del dipartimento di Arte moderna e contemporanea a Finarte, ha piazzato 21 lotti su 24, cioè un’enormità. E sì, è vero: i Bertinotti sono state figure importanti della storia repubblicana italiana, sono stati (soprattutto lui) protagonisti della scena politica e di quella culturale e ha ragione l’amministrazione delegato della casa d’asta Alessandro Guerrini quando dice che «la storia di un’opera, ma pure chi l’ha posseduta, vale molto». Tra l’altro sì, è vero pure: «Il successo della collezione resterà a lungo impresso nella nostra memoria», come sottolinea giustamente Bava (tra parentesi: il colpo di scena è arrivato con un’altra vendita, staccata dal catalogo, quella dell’olio su tela I bagni misteriosi di Giorgio De Chirico, appartenuto all’attrice Monica Vitti, comprato per 468mila euro, e-uno-e-due-e-tre-l’asta-è-conclusa). Ma resta il carisma evocativo dei due Wharol-Mao dismessi e staccati dal muro dell’“ultimo comunista d’Italia”. Non vorrà dire niente, per carità. Però.

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