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Sinistra contro Sbarra e Meloni? Ecco tutti i sindacalisti rossi riciclati in Parlamento

Compagni contro la nomina a sottosegretario dell’ex Cisl. Ma scordano l’esercito di leader che hanno fatto eleggere, da Bertinotti alla Camusso
di Pietro Senaldi domenica 15 giugno 2025

4' di lettura

Come farà a prendere sonno il segretario della Cisl, Luigi Sbarra? Annamaria Furlan, che lo ha preceduto alla guida di quello che una volta era “il sindacato bianco” e ora si è accomodata nei seggi parlamentari di Italia Viva, a godersi una ben remunerata pensione, lo ha rinnegato a causa della sua scelta di entrare nel governo di Giorgia Meloni come sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega al Sud. «Lo avevo scelto io, ora mi ha deluso», commenta la senatrice renziana, voce critica non isolata. Sbarra, a causa della sua scelta, è stato attaccato da tutta la sinistra, che per una volta ha trovato un motivo di unità. Dal Pd a Cinque Stelle, da Alleanza Verdi e Sinistra a Italia Viva, l’indignazione è unanime: c’era da aspettarselo, visto le politiche morbide nei confronti del governo, è il ritornello generale.

Perfino Savino Pezzotta, pure lui ex leader Cisl, punta il dito accusatorio. Poiché però è passato anche lui, come tanti, dal sindacato al Parlamento, e per di più nei banchi del centrodestra, con l’Udc, il vecchio orso bergamasco non ha molte frecce al suo arco e, per attaccare, è costretto a tirare fuori la nenia dell’antifascismo: la Cisl viene dalla tradizione della chiesa sociale, non c’entra nulla con chi non ha mai rinnegato la Repubblica di Salò.

Gli attacchi più pesanti sono arrivati dalla Cgil e dalla Uil. Hanno rimproverato a Sbarra di «essere saltato dall’altra parte della barricata» e di «aver ricevuto la nomina come un premio di fedeltà per aver collaborato con il governo più reazionario della storia d’Italia». Poi hanno constatato (con qualche anno di ritardo) che l’unità sindacale si è rotta. In realtà, quello che scandalizza la sinistra in merito alla mossa di Sbarra non può essere certo il passaggio alla politica, visto che questo è da decenni la specialità dei leader sindacali. A dar fastidio è che, rimanendo sindacalista, Sbarra faccia politica del lavoro attiva, firmi i contratti, collabori con il governo, anziché limitarsi all’opposizione dura o addirittura a evocare la rivolta sociale, come ha fatto il segretario della Cgil, Maurizio Landini. Che il sindacato faccia comunella con la politica, come recentemente con i referendum persi, va bene, a patto che l’asse sia rigorosamente a sinistra.

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La vera differenza, tra Sbarra e i suoi colleghi, è che il primo entra nel governo anche per promuovere gli interessi sindacali mentre per i sindacalisti finora l’approdo in politica, e in Parlamento, è sempre stato un bonus di fine mandato, un atterraggio morbido dopo la perdita del potere. L’elenco è lungo, rigorosamente incompleto. Se si parte dalla Cgil, anche se ben mimetizzata nell’irrilevanza dell’esercito dell’opposizione, occorre ricordare Susanna Camusso, passata da potente leader sindacale a ectoplasma del Senato. Prima di lei, Sergio Cofferati, piazzato prima al Comune di Bologna e poi all’Europarlamento, dopo aver perso la sfida con Piero Fassino e la ditta per prendere le redini dei furono Ds. E andando indietro, Guglielmo Epifani, che fu anche uno dei tanti segretari del Pd che non lasciarono traccia.

Forse il più famoso è Fausto Bertinotti, ex leader della Fiom piemontese, responsabile tra l’altro del disastro della marcia dei colletti bianchi Fiat del 1980, la più grande sconfitta sindacale che si ricordi, e per questo promosso prima alla segreteria nazionale e poi al Parlamento, dove divenne addirittura presidente della Camera. Fu proprio nel governo Prodi, che da leader di Rifondazione Comunista, Bertinotti fece cadere nel 1998, che faceva parte, come sottosegretario al Lavoro e alla Previdenza Sociale, un altro leader del Cgil, Antonio Pizzinato, cui il Parlamento aprì le porte quando il sindacato lo sloggiò perché non accettava la svolta di Achille Occhetto, da lui ritenuto un moderato. Se poi si ricordano anche i trascorsi da vicepresidente del Senato in quota Pci di Luciano Lama e quelli del suo figlioccio politico, il segretario aggiunto Ottaviano Del Turco, anni dopo diventato addirittura ministro delle Finanze nel governo di Giuliano Amato, si può sintetizzare che da circa sessant’anni la politica è il naturale approdo dei leader della Cgil. E ogni riferimento ai futuri progetti di Maurizio Landini non può essere casuale.

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Speculare la storia dei leader della Cisl. Il più famoso è Franco Marini, che arrivò addirittura a sfiorare la soglia del Quirinale, beffato in allungo da Giorgio Napolitano, dopo essere stato leader del Partito Popolare e ministro del Lavoro. Il più furbo è stato forse Sergio D’Antoni. Sì, quello che viveva in affitto nell’attico con doppia jacuzzi, che alla fine riuscì anche a comperarsi. Dopo tre legislature e una poltrona da sottosegretario allo Sviluppo Economico nel secondo esecutivo Prodi (Romano è stato il più solerte riciclatore di sindacalisti al governo), ora si riposa come presidente del Coni della sua Sicilia. Tutti a sinistra certo, tutti figli della fusione a freddo tra Pd e Margherita, alias comunisti e post-democristiani. L’eccezione c’è, e non è Raffaele Bonanni, leader Cisl per otto anni che non si candidò mai a ruoli politici. L’eccezione è Renata Polverini, leader dell’Ugl, il sindacato di destra e per questo candidata vincente alla presidenza del Lazio con il centrodestra. In Parlamento ci è finita anche lei, per Forza Italia, che però ha lasciato per votare un’inutile fiducia al Conte 2, già sfiduciato da Matteo Renzi. È tornata poi a Canossa, ma non in Parlamento. Ci sono limiti che è meglio non valicare.

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