Nel consentire a Beppe Sala, che ha accettato si vedrà se più con coraggio o imprudenza, di proseguire con il suo secondo ed ultimo mandato di sindaco di Milano, il Pd ha assicurato a livello locale e nazionale che la magistratura proseguirà “il suo corso”. Certamente, figuriamoci. Non potranno essere né Sala né il Pd a poterlo impedire, anche se lo volessero dietro la facciata della sfida o della fiducia, come preferite.
Ma temo per Sala, i suoi amici, i suoi estimatori, simpatizzanti eccetera che “il corso” della magistratura sia non meno insidioso di quello della maggioranza, se non addirittura di più. Anche perché nel caso del sindaco di Milano la maggioranza è solo apparentemente una sola. In realtà sono almeno due. Una è quella più o meno confermatasi nell’aula del Consiglio comunale, dove non è presente nemmeno fisicamente il Movimento 5 Stelle che sta all’opposizione fuori, deciso a “non fare sconti”, come ha avvertito con severità, minaccia e quant’altro da Roma Giuseppe Conte camminando quasi a passo di carica fra la sua abitazione, gli uffici del partito e quelli della Camera.
L’ALTRA MAGGIORANZA
L’altra maggioranza è quella futuribile a livello nazionale alla quale lavora, sempre a Roma, la segretaria del Pd pensando – “testardamente unitaria”, come usa ripetere- al cosiddetto campo largo dell’alternativa al centrodestra. A partecipazione naturalmente pentastellata o pentastellare, anche a costo o a rischio di lasciarla guidare dallo stesso Conte, o da altri che dovessero prevalere nella corsa di cui ogni tanto si avvertono i rumori.
Al lavoro della Schlein per questa maggioranza a guida ancora incerta o improbabile non mi pare proprio che voglia o possa sottrarsi il Pd milanese. Dal quale pertanto Sala dovrebbe guadarsi per primo dietro la facciata della solidarietà ricevuta, del resto condizionata a quella che in politica anche noi cronisti ci siamo abituati a chiamare “fase due” di un governo, locale o nazionale che sia.
Una fase che in genere, già nella cosiddetta prima Repubblica, quando c’erano partiti fortemente strutturati e leader un po’ più navigati di quelli attuali, senza volerli offendere, si risolveva in un fiasco. O, se preferite, in una crisi ritardata, e quindi in una situazione più aggrovigliata e densa di veleni e sospetti.
LA LEZIONE DI ANDREOTTI
Il buon Andreotti - che pure si sarebbe poi distinto per una resistenza opposta a Ciriaco De Mita che ne voleva la caduta del governo di turno perché, a suo avviso, troppo logorato, sino a dire che «è meglio tirare a campare che tirare le cuoia» - mi disse una volta, che «le fasi due dei governi» dovevano intendersi addirittura “agonie». Delle quali bisognava solo preoccuparsi che fossero per il malcapitato le meno dolorose. Mi rendo conto che non è bello parlarne. E neppure sentirne o leggerne per il sindaco Sala. Ma questa è - lui lo sa molto bene, con o senza quella «faccia di Cristo in croce» che gli ha impietosamente attribuito Carmelo Caruso sul Foglio sentendolo e vedendolo al Consiglio comunale di lunedì - la situazione in cui si trova, spintovi dalle circostanze sempre drammatiche quali sono quelle che si producono quando si intrecciano i “corsi” – ripeto- della politica e della giustizia, dei partiti e delle procure della Repubblica. Circostanze che francamente, pur condividendola, non so se e fin quanto potranno essere eliminate o ridotte dalla riforma costituzionale della giustizia “in corso” d’esame, anch’esso, in Parlamento. Quella, per intenderci, della separazione delle carriere fra giudici e pubblici ministeri, del doppio Consiglio Superiore della Magistratura e dell’Alta Corte per le toghe, oggi sottoposte ad un trattamento domestico sotto tutti © RIPRODUZIONE RISERVATA i punti di vista.