Quella di ieri può a ragione definirsi una giornata storica. Il Cipess, il comitato interministeriale che sovrintende ai grandi investimenti pubblici, ha dato infatti il via libera al progetto definitivo del ponte sullo stretto di Messina. A settembre, come ha annunciato il ministro Salvini, dovrebbero aprire i primi cantieri. Si è giunti a questo risultato dopo due anni e mezzo di lavoro costante, determinato, frammisto di ostacoli di ogni genere ma tutti o quasi riconducibili ad una astratta e pericolosa ideologia che potremmo definire antisviluppista o della “decrescita infelice”. Una ideologia abbracciata da una sinistra sempre più radicalmente antimoderna, che declina in modo nuovo il vecchio odio marxista per il capitalismo (Marx dopotutto credeva nello sviluppo come propedeutico alla realizzazione del distopico “regno della libertà” da lui immaginato). Una ideologia che ha bloccato il progetto almeno dagli anni Ottanta del secolo scorso, rimasto irrealizzato nonostante l’impulso che ad esso intese dare Berlusconi negli anni dei suoi governi. Quarant’anni buttati al vento, si potrebbe dire. Ma anche quattro decenni in cui il mondo ha visto l’avanzare impietoso di Paesi, a cominciare dalla Cina e dagli altri asiatici, che sulle grandi infrastrutture hanno edificato una parte non irrilevante del loro successo economico e sociale.
La non realizzazione del ponte è venuta così ad assumere un valore simbolico e quasi metafisico: la dimostrazione di un Paese in declino, fermo, incapace di programmare il proprio sviluppo. Un Paese con una capacità ingegneristica che non ha forse eguali, ma che è costretto ad esportare all’estero le sue competenze contribuendo in questo modo allo sviluppo di altre nazioni (non poche fra le grandi opere realizzate nel mondo portano il marchio d’origine di imprese italiane e di nostri ingegneri). E pensare che si tratta di quello stesso Paese, l’Italia, che era stato capace di sorprendere tutti nell’immediato dopoguerra, passando, nel giro di una generazione, dalla povertà diffusa al boom economico. Di quel vero e proprio “miracolo” fu testimonianza e simbolo un’altra grande opera realizzata in soli otto anni (dal 1956 al 1964): quella Autostrada del Sole che collegò definitivamente il Nord al Sud del Paese e che oggi sarebbe sicuramente ostacolata da ambientalisti e decrescisti di ogni specie.
Ugualmente il ponte fra Reggio Calabria e Messina collegherà la Sicilia al “continente”, con tutto quel che ne conseguirà in termini economici ma anche di immaginario e appartenenza comune. Se la soddisfazione del ministro Salvini, che con caparbietà e determinazione ha creduto nel progetto sin dal primo giorno di insediamento al Ministero, è più che giustificata, altrettanto legittimi sono i timori, espressi da lui stesso in conferenza stampa, che da qui al 2032/33, data prevista per la fine dei lavori, qualcuno possa ancora pensare di bloccare il progetto in nome della stessa ideologia che già tanti danni ha causato a questa nostra povera Europa (vedi alla voce: Green Deal). Il paradosso di questa ideologia è che ha trovato alibi di ogni tipo per fermare il ponte: dalle infiltrazioni mafiose, quasi che esse vadano evitate non con la trasparenza e la correttezza ma con la stasi, al rischio sismico o dei forti venti che soffierebbero nella zona, quasi che le opere non fossero collaudate proprio per far fronte a queste circostanze. Il più grande paradosso è però che, in nome dell’ambiente, si vorrebbe impedire proprio quell’altamente inquinante traffico di traghetti e navi che ha ucciso la flora e fauna acquatica in un tratto di mare meraviglioso. E che oggi renderebbe la vita difficile persino a due mostri marini come Scilla e Cariddi.