Ventitré pagine dettagliate, dal sapore sia tecnico che politico, per smontare le accuse del Tribunale dei Ministri e la narrazione della sinistra. Una memoria difensiva solida quella firmata dal sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano, dal ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, e dal ministro della Giustizia, Carlo Nordio. Ora toccherà alla Giunta per le autorizzazioni della Camera, convocata per stamattina, decidere il da farsi sul caso Almasri. Se mandare a processo mezzo governo - le accuse vanno dall’omissione di atti d’ufficio al favoreggiamento, passando per il peculato - o scagionarlo. I ministri non hanno dubbi nell’aver agito per tutelare «un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante» e per perseguire «un preminente interesse pubblico nell’esercizio delle funzioni di governo». Tradotto: abbiamo lavorato per difendere la sicurezza nazionale.
Ma andiamo con ordine. Nelle prime battute della memoria depositata, Mantovano, Piantedosi e Nordio sottolineano alcune anomalie e violazioni commesse dai giudici: le indagini, infatti, sarebbero durate oltre i termini previsti dalla legge; non avrebbero accolto la richiesta di Mantovano di farsi interrogare al posto del ministro della Giustizia; avrebbero inoltre screditato le testimonianze che andavano contro le tesi del collegio; hanno portato infine a iscrivere nel registro degli indagati anche il capo di gabinetto di Nordio, Giusi Bartolozzi, con un procedimento separato rispetto a quello dei ministri nonostante si trattasse dello stesso caso. Per tutto ciò la domanda di autorizzazione a procedere nei loro confronti «è irricevibile» perché «le violazioni di legge sono così gravi e numerose» che «potrebbero anche esimere dall’entrare nel merito».
Ma anche entrando nel merito, sono diverse le cose che non tornano sulla vicenda del comandante libico su cui pendeva un mandato di arresto da parte della Corte penale internazionale, arrestato il 19 gennaio in Italia dopo aver girovagato per mezza Europa e poi rimpatriato nel suo Paese. L’accusa mossa dai giudici al ministro Nordio è quella di non aver vidimato il fermo di Almasri lasciandolo dunque libero. «Il Tribunale non ha minimamente considerato i tempi in cui si sono svolti gli eventi. Viene, infatti, erroneamente affermato che l’arresto sarebbe avvenuto nella giornata del 18 gennaio così dilatando l’arco temporale a disposizione del ministro della Giustizia. In realtà, l’arresto venne ritualmente eseguito il 19 gennaio», si legge nella memoria.
Tutto riscontrabile nel verbale d’arresto della Questura di Torino. E non è un dettaglio da poco il fatto che tutti gli atti ufficiali siano stati trasmessi in Italia solo il giorno dopo, ovvero il 20 gennaio, quindi dopo l’arresto. Di più: nel caso di un mandato di arresto emesso dalla Corte penale internazionale, secondo la legge del 2012, «la polizia giudiziaria non può procedere autonomamente ma deve attendere l’iniziativa del ministro». Al contrario, nello specifico episodio che ha riguardato Almasri, l’arresto operato dalla polizia «ha posto di fronte al fatto compiuto, prima che il ministro potesse esercitare i poteri che lo statuto gli conferisce». Il nocciolo di tutta la questione, però, è quello relativo alla sicurezza degli italiani in Libia. Il generale Giovanni Caravelli, direttore dell’Aise (Agenzia informazioni e sicurezza esterna), ovvero il più qualificato organo a descrivere i rischi del trattenimento in Italia del ricercato libico, aveva spiegato di aver ricevuto tra il 19 e il 20 gennaio informazioni da Tripoli «in merito a una certa agitazione che stava montando a seguito del fermo».
Almasri, infatti, era uno dei vertici della Rada Force, che operava in quartieri nevralgici della capitale, incluso quello dell’ambasciata italiana, e aveva anche il controllo dell’aeroporto di Mitiga. Caravelli, ai giudici, aveva inoltre riportato «indicatori di possibili manifestazioni o ritorsioni nei confronti dei circa 500 italiani che vivono o arrivano a Tripoli, nonché nei confronti degli interessi italiani». Il rischio di un altro “caso Cecilia Sala” era dietro l’angolo. L’ipotesi, infatti, era che la Rada Force «avrebbe potuto effettuare dei fermi di nostri cittadini o perquisizioni negli uffici dell’Eni».
I fatti avevano poi dato ragione alle scelte del governo. Documenti Aise alla mano, infatti, da febbraio in avanti, in Tripolitania, si erano registrati 29 incidenti, tra scontri armati, attentati, omicidi e sequestri. Nella notte tra il 17 e il 18 aprile erano state trovate delle molotov all’esterno delle mura dell’ambasciata italiana a Tripoli, oltre a delle scritte contro il nostro Paese. Il 28 luglio, invece, un libico, con due coltelli nelle mani, era riuscito a introdursi all’interno dell’ambasciata, mentre il 10 agosto erano partiti cinque colpi di pistola contro un militare italiano all’interno della base aerea di Mitiga. L’alternativa ventilata dal Tribunale dei Ministri per evitare ritorsioni all’arresto del generale, ovvero rimpatriare i 500 italiani presenti in Libia, diventa quindi il passaggio «più irrazionale» dell’accusa secondo i ministri. Come era possibile, del resto, trovare in mezza giornata i mezzi necessari per portarli all’aeroporto controllato da Almasri?
Quanto invece al caso del volo di Stato predisposto per velocizzare il rimpatrio di quest’ultimo da parte di Mantovano, nella memoria si evidenzia la scarsa conoscenza in materia da parte del Tribunale. Infatti, «è da escludere che il sottosegretario debba effettuare lo screening dei voli di linea sulla tratta interessata». E ancora: «Se poi la Giunta ritenesse per assurdo che l’uso per questo fine del volo di Stato rappresenti peculato, l’effetto sarebbe la cessazione della cooperazione giudiziaria e di polizia, perché certi trasferimenti sui voli di linea sono oggettivamente impossibili». Peggio di tutti, però, riesce a fare Angelo Bonelli (Avs): «I caso Almasri è il Watergate italiano».