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I progressisti non hanno più classe dirigente

di Mario Sechi domenica 21 settembre 2025

4' di lettura

Le reazioni della sinistra alla promozione dei conti pubblici dell’Italia da parte dell’agenzia Fitch oscillano tra l’infantilismo e la crisi isterica, il populismo e la demagogia anti -italiana. Il gran premio del peggiore lo ha vinto con netto distacco Giuseppe Conte che, non capendo il fatto e non sapendo quanto il rating incida per decine di miliardi sulle tasche degli italiani (minore costo del debito, maggiore accesso agli investimenti, stabilità economica e fiducia di famiglie e imprese, spazio per la spesa nella legge di Bilancio e il finanziamento delle riforme, rating migliore per le imprese e le istituzioni finanziarie che hanno dimensione internazionale) si è prodotto in uno dei suoi numeri da cabaret economico, mischiando il salario minimo con le liste d’attesa, il Pnrr con le pensioni, un guazzabuglio che conferma quanto sia pericoloso il leader pentastellato per il portafoglio degli italiani. Quanto a Elly Schlein, la segretaria del Pd ha scelto la linea del fare finta di niente, in pieno stato confusionale ha evitato di misurarsi su un argomento - il giudizio dei mercati - che è sempre stato un cavallo di battaglia del Partito democratico contro la destra, uno strumento dell’antiberlusconismo usato come una clava dai “maître à penser” progressisti.

La linea della fantasia al potere è un suicidio politico dell’opposizione, chi si candida a governare l’Italia dovrebbe prendere atto del giudizio di Fitch (e prima ancora di S&P e Dbrs), darne un commento positivo e spiegare agli elettori come intende conciliare le sue utopie economiche con la realtà dei mercati e il giudizio degli investitori. È successo l’opposto, perché per fare questo ci vuole una classe dirigente, ma questa sinistra non ce l’ha. Dopo tre annidi governo Meloni, tutte le pensose riflessioni degli economisti e gli articoli del giornalismo “à la page” che accusavano la destra di «non avere classe dirigente» e presto «falliremo», sono carta straccia, non li accettano neppure al macero, talmente sono insozzati dal pregiudizio ideologico.

Non hanno azzeccato una sola previsione (e confidano nella scarsa memoria degli italiani), ma sono riusciti a certificare la povertà culturale e la vocazione sfascista della sinistra dei “barbudos e descamisados” a cui Schlein e Conte stanno dando l’impronta indelebile dell’estremismo. Il sigillo su questa bancarotta politica l’ha messo ieri Paolo Gentiloni che ha detto una disarmante verità: «Le opposizioni hanno da fare moltissimi passi in avanti per guadagnare la credibilità per poter essere un'alternativa». Il giudizio di Gentiloni è una notizia notevole per molte ragioni: “Sor Paolo” è figura di spicco del potere romano, è di aristocratiche origini (è uno dei discendenti della famiglia dei conti Gentiloni Silveri, nobili di Filottrano, Cingoli, Macerata e Tolentino) con una storia antica di legami Oltre Tevere, la sua biografia politica è lunga e densa, comincia nei movimenti studenteschi degli anni Settanta (nella sua giovanile fase scapigliata fu perfino maoista), fu ecologista (direttore della rivista Nuova Ecologia), consigliere e ispiratore di Francesco Rutelli prima in Campidoglio (portavoce e assessore al Comune di Roma), poi fondatore della Margherita e infine del Partito democratico (di cui è stato presidente). Un navigatore di lungo corso che ha ricoperto ruoli di primissimo piano nel governo, è stato due volte ministro (degli Esteri e delle Comunicazioni), premier con il cilicio a Palazzo Chigi durante la faida tra il Rottamatore Renzi e il Pd, fino a pochi mesi fa potente Commissario europeo all’Economia a Bruxelles. Gentiloni è uno che pesa e pensa, sa che la rotta di Schlein va dritta verso gli scogli e lui in fondo è anche l’ultima carta rimasta ancora in campo del Pd “governista”, dunque le sue parole sono un «ve l’avevo detto» che s’approssima solenne al “de profundis”.

A mercati chiusi, dopo il giudizio di Fitch, il Pd si è volatilizzato e i Cinque Stelle hanno preso la clava. È uno scenario lontano anni luce da quel che sogna Gentiloni, «l’alternativa», figuriamoci. L’inadeguatezza della sinistra era d’altronde visibile (e risibile) nelle prime pagine dei giornali progressisti (quasi tutti), dove la notizia del miglioramento del rating (arrivato dopo la bocciatura della Francia) è stata impaginata come un episodio di routine, una formalità, e non invece un fatto eccezionale che certifica un cambio di rotta nella politica economica dell’Italia. A parti invertite, con la sinistra al governo, un Antonio Misiani ministro al posto di Giancarlo Giorgetti e una Elly Schlein a Palazzo Chigi (vado oltre i confini della realtà per esercitarmi nella scrittura horror), la Rotativa Unica avrebbe stampato titoli cubitali e lanciato proclami di vittoria contro le legioni della finanza. Il giorno dopo, nell’imbarazzo generale del piccolo establishment, spiazzato dal melonismo di mercato, Gentiloni si è ritrovato a predicare nel deserto: «Se non hai una credibilità per poter essere un'alternativa, il rischio è che nonostante tutte le sue divisioni, nonostante i suoi errori, nonostante le sue debolezze, l'attuale governo duri a lungo». Gentiloni dixit, il profeta senza popolo della sinistra che si è declassata © RIPRODUZIONE RISERVATA da sola.

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