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La fatwa e la libertà

di Mario Sechi mercoledì 8 ottobre 2025

4' di lettura

La tragica escalation di Francesca Albanese che prima dice che non bisogna invitare in tv il direttore di Libero (e lo fa per difendere la presidente della Commissione di Vigilanza Rai, Barbara Floridia, che ha manipolato un mio intervento in tv, esponendomi a gravi rischi), poi scappa a gambe levate da uno studio televisivo quando viene citata Liliana Segre e subito dopo afferma che la senatrice a vita, sopravvissuta al campo di concentramento di Auschwitz, non è la persona giusta per parlare di genocidio, è esplosa nelle mani della sinistra.

Ieri la premier Giorgia Meloni ha ricordato a Porta a Porta con Bruno Vespa la “fatwa” che mi riguarda, ma l’affaire Albanese va ben oltre la questione del pluralismo in tv e della libertà di informazione. La profetessa di Gaza ha gettato la maschera, si è permessa di varcare la soglia dell’indicibile e, improvvisamente, fulminati dalla saetta della Signora della Kefiah, i suoi adoratori progressisti hanno scoperto il suo vero volto e ora si grattano la testa, pensosi, mentre offrono cittadinanze onorarie, senza riflettere sulle conseguenze dell’estremismo ormai senza freni.

La Albanese è una lugubre campionessa del rovesciamento dei valori occidentali, sembra uscita da un campus americano inquinato dalla follia relativista, una comparsa delle pagine de «La chiusura della mente americana», il monumentale libro di Allan Bloom pubblicato nel 1987 con una prefazione di Saul Bellow. Trentotto anni dopo, ecco le ultime notizie dal fronte italiano: per Francesca Albanese i terroristi devono essere compresi, gli ostaggi ebrei non devono essere nominati, la Segre non è lucida sul genocidio. Siamo alla discesa agli inferi, compagni, e la presa di distanza di alcuni non salverà la sinistra dal giudizio che presto darà il tribunale della storia. Ho ricordato il libro di Bloom - che è uno straordinario viaggio nel declino dell’alta educazione del sapere, manomessi dall’ideologia liberal - perché il terreno che la Albanese sta seminando dal 7 ottobre 2023, dal giorno della strage degli ebrei, è soprattutto quello delle università, il mondo dei giovanissimi che scendono in piazza inneggiando alla «Palestina libera dal fiume al mare», cioè la cancellazione di Israele. Non è solo ignoranza, è il frutto del cattivo insegnamento, dell’intolleranza coltivata in cattedra.

Quando Annamaria Bernini viene contestata a Siena (mentre accoglie in Italia degli studenti palestinesi!) siamo di fronte a un cortocircuito che mostra la corruzione della missione dell’Università, dove l’occupazione delle aule, la caccia al sionista, i dibattiti apertamente antisemiti e filo Hamas, non sono libertà d’espressione, ma la cancellazione della tolleranza e dei principi del dibattito plurale e informato, è anche la rottura clamorosa della legalità che non solo non viene perseguita, ma conta sulla complicità di molti rettori e senati accademici. Per quieto vivere, per collateralismo, per disprezzo dei diritti di tutti gli altri studenti, le aule sono diventate l’arena dei violenti (è la violenza del pensiero unico la più insidiosa). Tutto tace, mentre l’università (come molte altre istituzioni culturali) è diventata l’officina di ombre sinistre che non si nascondono più, scendono in piazza, flirtano con l’idea dell’omicidio. Lucetta Scaraffia, storica e giornalista, si è dimessa dal Comitato etico dell’Università di Ca’ Foscari, sul Foglio ha raccontato come «l’ateneo veneziano ha deciso non solo di sospendere i rapporti scientifici con enti e istituzioni israeliane, ma di estendere la misura a singoli docenti che non siano in grado di dimostrare di non appoggiare la politica del governo Netanyahu. È questa clausola a rendere il provvedimento intollerabile: la pretesa di chiedere a un professore di dichiarare la propria innocenza politica, di certificare il dissenso dal governo del proprio Paese, somiglia a un dispositivo da regime totalitario. Non si giudicano più le ricerche, le competenze, la qualità del lavoro scientifico: si indaga l’ortodossia delle opinioni». Scaraffia ha mostrato un coraggio da leonessa, un’indipendenza rara in un mondo pervaso dal conformismo.

È un clima da caccia alle streghe che vede nel sionista, nell’ebreo, nell’intellettuale non allineato all’ideologia anti-occidentale, anti-americana, anti-israeliana e, naturalmente, anti-meloniana, un soggetto da isolare e colpire. La fatwa di Albanese nei miei confronti è doppia, perché è un ammonimento e un giudizio che punta a de-umanizzare il bersaglio, ridurlo a oggetto da colpire prima di tutto con la lama dell’assalto verbale. In quella sua frase pubblicata su X («colpa di chi lo invita a parlare di cose che non sa e non capisce») c’è una lapidaria richiesta della leader del movimento pro-Pal - questo è oggi la Albanese - a mettermi all’angolo, in un cono d’ombra, fino allo spegnimento di ogni luce e suono che, per un giornalista, equivale alla scomparsa, come in un verso del poeta Fernando Pessoa: «La morte è la curva della strada, morire è solo non essere visto». Tutto si tiene e il filo rosso si chiama impunità, la macabra indifferenza, il negazionismo che culmina nel sottosopra della realtà. Così si denuncia al tribunale penale internazionale la premier Giorgia Meloni, si intimidiscono i giornalisti che non alzano la bandiera bianca davanti all’antisemitismo e all’ondata di violenza, si applaudono “i ragazzi” che urlano «Palestina libera dal fiume al mare». Hanno celebrato il 7 ottobre consegnando la gloria a Hamas.

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