È ormai da una cinquantina d’anni che la sinistra italiana è tale solo nominalmente, non facendo in realtà la sinistra e lasciando alla destra la politica di sostegno ai ceti popolari, di innovazione riformatrice e non rivoluzionaria, visto anche il fallimento della principale rivoluzione rivendicata dal comunismo nel secolo scorso con la pretesa, come si vantò una volta Giancarlo Pajetta per giustificare i troppi morti da essa prodotti, di riprendere e sviluppare la rivoluzione francese di più d’un secolo prima.
La rinuncia a fare davvero la sinistra, e non solo a intestarsela sbattendo a destra tutti quelli ai quali essa lasciava spazio elettorale e ancor più di governo, ha un filo conduttore di carattere personalistico, ancor più che politico. E ciò nella logica del nemico di cui la sinistra ha avuto il bisogno anche prima di una cinquantina d’anni fa. Quando, per esempio, il segretario del Pci Palmiro Togliatti, pur essendo stato con lui al governo come ministro della Giustizia, affrontò le elezioni politiche del 1948 proponendosi di cacciare Alcide De Gasperi «a calci in culo», letteralmente, per fortuna senza riuscirci.
Molto dopo, alla fine degli anni Settanta, venne il turno del socialista Bettino Craxi. Al quale per avere fatto da presidente del Consiglio una cosa di sinistra come la difesa del valore reale dei salari, falcidiati da una inflazione a due cifre, il Pci di Enrico Berlinguer e poi di Alessandro Natta mosse una guerra referendaria rovinosamente perduta. I tagli alla scala mobile frono confermati. Persino il buon Giorgio Forattini appendeva Craxi nelle sue vignette su Repubblica con tanto di stivali neri appeso come ad un cappio con la testa in giù.
Liberatasi di Craxi con l’aiuto dei magistrati, dei quali sarebbe poi rimasta dipendente rinunciando al garantismo, la sinistra italiana nel frattempo indebolita dalla caduta del muro di Berlino e del comunismo si trovò a fare i conti con l’imprevisto Silvio Berlusconi, da combattere anche lui in tutti i modi, compreso quello giudiziario.
Il riformismo anche costituzionale di Berlusconi, come quello abbozzato da Craxi senza avere avuto il tempo di praticarlo, divenne sostanziale golpismo nella rappresentazione della sinistra. Che tuttavia cercò di imitarlo quando pensò, con la riforma del titolo quinto della Costituzione sulle autonomie regionali, di poter impedire la ripresa dell’alleanza fra lo stesso Berlusconi e la Lega di Umberto Bossi, interrottasi alla fine del 1994. Ma fu un doppio fallimento. Il centrodestra si ricompose lo stesso e di quella riforma la stessa sinistra dovette pentirsi per i problemi che derivarono anche ai governi non di centrodestra, succedutisi con una frequenza persino superiore a quelli della cosiddetta prima Repubblica.
Ora è turno di Giorgia Meloni, in odio alla quale - odio vero, di parole e di fatti di piazza, di cui peraltro la premier non può lamentarsi senza essere accusata di vittimismo e simili- la sinistra tradisce paradossalmente anche le istanze di pace che dovrebbero caratterizzarla per prime.
Già limitatasi nella parte più consistente rappresentata dal Pd ad astenersi in Parlamento su una mozione della maggioranza a sostegno del piano di pace concordato fra Trump e Netanyahu su Gaza, temendo di compromettere con un voto favorevole i rapporti con Giuseppe Conte nel camposanto dell’alternativa al centrodestra, la sinistra sta cercando di minimizzarlo, e persino di demolirlo scavalcando persino i terroristi palestinesi di Hamas. Ho letto e sentito dalle parti della sinistra italiana, in Parlamento e nei salotti televisivi, di una soluzione “neo-colonialista” del problema di Gaza che la Meloni avrebbe quindi già commesso l’errore, la colpa e quant’altro di sostenere, pronta anche a contribuirvi, nel suo presunto rapporto subordinato con Trump. Che è il nemico addirittura planetario della sinistra italiana.