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Cambridge deraglia: "Ti esprimi come l'intelligenza artificiale"? Un insulto...

L'ultimo studio e una fragorosa conferma: se l'ingiustizia sociale sta nel paragone con l'AI, il wokismo è ufficialmente alla deriva
di Andrea Tempestini domenica 27 luglio 2025

3' di lettura

Con metodi piuttosto bruschi, spicci, insomma senza andar per il sottile, mister Trump ha rimesso in piedi le statue di Colombo e cancellato con un tratto di penna (quasi letterale) il wokismo statunitense. Un brutale e sacrosanto passo indietro, una contemporaneità che si spoglia delle farneticazioni woke (nell’accezione più ampia del termine). The Donald è un duro, ha un corpaccione, pesa: le vibrazioni dei suoi colpi le sentiamo anche noi, nonostante un Oceano di mezzo. E insomma ammettiamolo, con compiacimento: anche dalle nostre parti si vedono i primi timidi passi indietro verso un futuro migliore.

Poi, certo, gli Usa ci arrivano sempre prima. Ci servirà ancora tempo. E altrettanto certo quelli a cui servirà ancor più tempo sono i britannici: nella sua culla, sulla strada che unisce Oxford a Cambridge, il woke resiste lotta insieme a loro. Si pensi all’agghiacciante “cacciata” da scuola della 12enne che nella giornata della cultura aveva scelto di celebrare il Regno Unito vestita dell’Union Jack. Delirio vero stigmatizzato anche dal premier Starmer. Insomma, qualcosa si muove.

E il fatto che qualcosa si muova, in filigrana, lo si può percepire anche dall’ultima frontiera della farneticazione, raggiunta ça va sans dire dall’Università di Cambridge: l’introduzione del concetto di «AI shaming». In soldoni, sostenere che qualcuno si esprima o scriva come un’intelligenza artificiale sarebbe un insulto (quando è semplicemente vero o falso). Insulto per giunta «classista», poiché l’intento è quello di «declassare» l’eloquio altrui (capite bene che sulla base di questo principio sarebbe «classista» preferire una pastasciutta alla bistecca, imperdonabile «declassamento» della carne). Le scricchiolanti conclusioni sull’AI shaming sono figlie di uno studio condotto da Advait Sarkar, cattedra a Cambridge nel dipartimento di “Computer science and technology”.

L’unico germe virtuoso della ricerca sta nel fatto che si dia per scontata la superiorità dell’uomo rispetto all’AI: giornalisti, scribacchini, parolai e poeti, se «ti esprimi come l’intelligenza artificiale» è un insulto, hanno ancora un futuro. Ma il buono si esaurisce qui. E allora perché qualcosa si muove, seppur in filigrana? Semplice: perché il delirio è talmente acuto da far sospettare che effettivamente il wokismo tentenni anche tra i figli di Albione. Ossia: è indubbio che l’idea di AI shaming sia un sottoprodotto-woke. E proprio per questa ragione il wokismo si rivela profondamente in crisi: se l’ingiustizia sociale sta nel paragone con l’intelligenza artificiale sono davvero alla frutta.

Ma torniamo alla ricerca di Cambridge, che puntella la tesi sostenendo che dietro all’AI shaming ci sarebbe un «conflitto di classe latente»: sarebbero infatti i ceti medio-alti a svalutare il lavoro del «proletariato della parola», ossia degli ignorantotti, di chi è avulso al lessico forbito, di chi non sa esprimersi. Se ci pensate la teoria è lunare: avete mai sentito un ricco & intelligente insultare un povero & semplice dicendogli che «parli come ChatGpt»? Ma soprattutto, in un mondo di analfabeti di ritorno, analfabeti funzionali, di capre e caproni, saper parlare come ChatGpt non sarebbe una più che discreta base di partenza? Ovviamente sì, ma questo a Cambridge conta zero: ai cervelli fumanti interessa solo calare dall’alto nuove parole, nuove paranoie, nuovi sensi di colpa. L’AI shaming, per esempio.

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