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L'ultimo Kiss (un saluto al rock immortale)

I Kiss, ultimo tour all'Arena di Verona

A Verona, delrio per i 25mila fan scatenati, tra vecchi innamorati (noi) e orde di ragazzini (i nostri figli). Simmons e C. incantano anche a 70 anni citando perfino Rita Pavone. Addio a un pezzo di storia...

Francesco Specchia
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"You wanted the best! You’ve got the best! The hottest band in the world". Volevate il meglio! Avete il meglio! La band più calda del mondo. La frase è esalata dalla voce d’abisso (assieme a una lingua di fuoco su lingua di mucca) dal “Demone” Gene Simmons; ed è la classica apertura tonante di un concerto dei Kiss. Volevamo il meglio. Lo abbiamo avuto.

Il meglio è qui, ti passa accanto dopo un brano dei Led Zeppelin. Il meglio è qui, sul palco incastrato tra gli antichi pietroni romani dell’Arena di Verona e i gonfiabili giganti del Demone e di Starman, del Figlio delle Stelle e dell’Uomo Gatto. I Kiss nel loro congedo sono visioni di un rock antico e immortale. Che prende subito forma umana al suono di Detroit Rock City, di Lick It Up, di Shout It Out Loud, soprattutto della leggendaria I Was Made for Lovin’ You. Roba che i miei figli, Gregorio Indro e Tancredi rockettari di dieci e sette anni, cantano arrampicandosi sulla folla, a squarciagola, qui sui sacri pietroni, assieme a centinaia di coetanei tutti assurdamente adoranti quel tripudio di borchie e di make up a ricoprire i solchi del tempo.

Questi ragazzini sono esattamente come me quando avevo la loro età e, osservavo in un terribile film di fantascienza, Phantom of The Park del ’78, proprio Gene Simmons che sputava fiamme; e l’immaginavo come un sottoprodotto dell’inferno. Solo in seguito scoprii che Gene era un ebreo ungherese di umili origini con la sola madre sopravvissuta all’Olocausto. Uno che parlava cinque lingue, tra cui l’ebraico e il giapponese; che aveva avuto 4600 donne tutte consenzienti; che non aveva mai bevuto alcolici, usato droghe o fumato sigarette; e che, anzi, licenziò l’altro fondatore Ace Frehley perché questi, intasato dal bourbon come un Dean Martin qualsiasi, si presentò alle prove della band vestito da nazista (un’aneddotica a cui, onestamente, mi ha abbeverato il mio primogenito mentre a sei anni si aggrappava alla chitarra elettrica per suonare, in acrobazia Heaven’s on Fire). Ma sto divagando. 

Il meglio, dicevo. Il meglio del repertorio immaginifico dei Kiss esplode in questo concerto dell’Arena, che non è un concerto qualsiasi. Trattasi del  The End Of the Road Tour, l’ultimo show europeo che anticipa lo scioglimento del gruppo; un evento che si consuma tra 25mila spettatori sovreccitati all’idea di trovarsi ingoiati nella notte dai soliti giochi di luci, di laser che rilanciano ondate di calore vero sul pubblico, di palloncini che accompagnano le immagini esplosive degli ultimi cinquant’anni del gruppo –con i Rolling Stones- più longevo del mondo. Un concerto dei Kiss è un mix fra un’esperienza lisergica, un film Marvel e una serata di teatro Kabuki. Figuriamoci l’ultimo concerto. Questo show – con due ore di ritardo, sciolte però nell’euforia delle due ore di esibizione successiva- rende l’anfiteatro romano un invaso di musica e di gioia. E di migliaia di facce dipinte con stelle nere su cerone bianco, di volti felici e tatuati nel simbolo del pipistrello, di braccia al cielo. 

È uno spettacolo che intarsia la notte di fuochi fatui. Piccoli, veloci, impuniti fuochi fatui che divampano tra il megaschermo sul palcoscenico, a rilanciare le vecchie immagini e i primi piani degli eroi immersi nella loro musica che il Sovrintendente delle Belle Arti di Verona, qui, avrebbe voluto stoppare

Eppoi ecco tutta l’iconografia dei Kiss che si fa carne. Ecco volgersi al cielo il basso a forma d’ascia di Simmons che rilancia sguardi vampirici e rilascia sangue finto dalla mandibola. Ecco la chitarra spaccata sull’amplificatore di Paul Stanley, il leader fondatore virilissimo con la sua vocine in falsetto, nel suo gender fluid  ispiratore del Rocky Horror Picture Show (altro che DamianodeiManeskin…). Ecco Tommy Thayer che spara razzi pirotecnici dalla chitarra elettrica al termine di Cold Gin. Ecco Eric Singer che intona la malinconica Beth con la classe del suo predecessore Peter Criss, l’uomo che trasforma la sua batteria issata a tre metri d‘altezza,  in una camera iberbarica dopo l’immersione profonda nel cuore stesso del rock n’ roll. 

A un certo momento Paul e Gene citano –non so come- i gelati, il mare e Rita Pavone omaggiata pure  dell’incipit di un suo cavallo di battaglia. Rita Pavone citata dai Kiss. Mi chiedo cos’abbiano in comune. E qui mi faccio due conti. 

Sono 67 + 70 + 59 + 61, sono 257 in tutto gli anni di vita di queste quattro leggende on stage, pesantemente truccate, con i capelli tinti, con abiti di scena impegnativi (a cominciare dalle celebri zeppe ai piedi di Gene e del suo corpetto, quasi venti chili di armatura) e una scaletta frenetica e impossibile, come solo quella degli Stones. Mi rendo conto che Gene e Paul hanno la stessa età di Mario Monti. Quando intonano Rock and Roll All Nite impazziamo tutti, il coro s’eleva alle stelle nell’Arena sold-out. Braccia e abbracci. Canto e incanto. I bimbi che piangono, per la felicità e perché sanno che non rivivranno mai più la magia. La lingua saettante del Demone  batte il ritmo, una signora –in tutto quel casino- mi chiede se davvero Gene se la sia fatta trapiantare da un bovino, come narra una vecchia leggenda. 

L’amore del popolo dei Kiss, che travalica il tempo e lo spazio, fa perdonare anche questo. I Was Mad for Lovin’ You, appunto. Volevamo il meglio. L’abbiamo avuto…

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