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Il "Vate" Germano prende i soldi dal governo. Poi lo infanga sui contributi del cinema

di Daniele Dell'Orco venerdì 9 maggio 2025

3' di lettura

Il momento della consegna sul palco di un premio qualsiasi corrisponde ormai sempre più spesso a quello in cui i palchi si trasformano in pulpiti e cantanti, attori, sportivi e showman, per qualche misteriosa investitura, si travestono da oracoli morali. Al David di Donatello, quel momento l’ha incarnato Elio Germano: barba da intellettuale, stempiatura tipica dell’anti-divo, sguardo acceso e tono solenne di chi non non sale i tre gradini per ringraziare, ma per redimere. Il suo talento, nel corso degli anni, è spesso stato offuscato dall’attivismo da centro sociale. E pure ai David ha indossato ancora una volta l’abito preferito: quello del Vate contemporaneo, che declama verità morali con il pathos di chi è convinto che le parole, da sole, possano raddrizzare il mondo. Ritirando il premio per aver prestato volto e voce ad Enrico Berlinguer - simbolo però di un’epoca in cui la politica si faceva con le idee, non con gli slogan- oltre al solito attacco caustico contro il governo Meloni l’attore ha voluto servire al pubblico non solo gratitudine, ma una porzione abbondante di coscienza civile, ben condita di buoni sentimenti. Il cuore del suo messaggio petaloso è stato «a parità di dignità».

Parole scolpite nella Costituzione (italiana), certo, ma pronunciate con quel tono aulico e universale che fa pensare più a una dichiarazione d’intenti da concorso di bellezza che a una presa di posizione concreta. Poveri e ricchi, neri e bianchi, uomini e donne: tutti degni allo stesso modo. E, per non farsi mancare nulla, ecco il passaggio finale, quello che strappa applausi e titoli: «Un palestinese deve avere la stessa dignità di un israeliano». E grazie. Come se fosse sufficiente dirlo per rendere vero l’ideale. La forza retorica di Germano sarà fascinosa, come fissare appuntamenti per interviste ai centri sociali, portare a teatro Gino Strada e invocare la pace nel mondo. Ma il rischio, altissimo, è quello della predica scollegata dalla realtà, della verità da palcoscenico che si dissolve appena calano le luci. L’Elio peace and love, però, l’obice quando vuole lo usa. Cioè quando c’è da sparare sul ministro della Cultura Alessandro Giuli e il governo: «Vorrei che il ministro si confrontasse con i diversi rappresentanti della nostra categoria anziché piazzare gli amici nei vari posti come fanno i clan. Il cinema è davvero in crisi e noi crediamo per grossa responsabilità del ministero della Cultura. Sentirci dire che le cose vanno bene, in questo modo tra l’altro bizzarro, è dal mio punto di vista fastidioso». Il rapporto tra il MiC e il mondo del cinema (arcobaleno) era piuttosto complicato già con Gennaro Sangiuliano. Ma sia allora che adesso tra coloro che non si possono proprio lamentare del supporto ministeriale dovrebbe esserci proprio Germano.

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I 5 film a cui ha partecipato a vario titolo dal 2023 ad oggi hanno ricevuto 9 milioni di fondi a fronte di costi complessivi per 24 milioni. Più di un terzo del budget per le sue pellicole è stato in sostanza coperto dal Ministero del governo Meloni. E, tra parentesi, l’ultimo appena approdato in sala, “N-EGO” di Eleonora Di Mario, sta incassando appena 500 euro al giorno. Ecco anche perché dal MiC filtra irritazione per l’attacco a Giuli. Non tanto per lesa maestà ma perché il Ministero avrebbe non aperto, ma spalancato le porte all’ascolto delle rimostranze di Germano e non si aspettava certo una sparata utopica e banale in tutto tranne che nella ferocia antigovernativa. Il Vate quando vuole incanta, ma fuori dai teatri la complessità delle cose resta, più ruvida e più tragica di una formula armoniosa. E forse, nel 2025, servirebbe meno lirismo e un po’ più di analisi. O semplicemente, quando si vince un premio, avere l’umiltà di  ringraziare e basta.

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