“Io ero un autarchico”. La filmografia di Nanni Moretti andrebbe ritoccata, correggendo all’imperfetto quel “sono”, il verbo del titolo di quella che di fatto è l’opera prima del regista, storia di un attore di una compagnia sperimentale che vive mantenuto dal padre. Si sa che i lavori dell’artista sono un buon mix tra travagli autobiografici e velleitarismi onirici che girano intorno al mondo secondo Nanni. Il dilemma del bardo di Monteverde Vecchio non è in realtà se lo si noti di più quando c’è o quando manca: quando c’è, da tempo non dice nulla di nuovo e quando manca, chiunque abbia visto due o tre sue pellicole può facilmente immaginarsi come passa le giornate. Il dilemma è se basti a dirsi autarchico avere un rapporto di distaccata alterigia con il prossimo, come probabilmente pensa Nanni, o se per vantarsi dello snobistico titolo occorra anche poter fare a meno di qualsiasi scambio e rapporto con gli altri, come vorrebbe il dizionario della lingua italiana. Siccome proprio il regista ci ha insegnato che «le parole sono importanti», è bene che gli sia chiaro che l’essenza del concetto di autarchia ha natura economica e sociale, mentre la caratterialità è un elemento secondario.
Per carità, nessuno può dire che l’autarchico Michele, il protagonista dell’opera prima del regista, che fa l’artista con i soldi di papà sia paragonabile all’autarchico Nanni che fa il produttore (anche) con i soldi dello Stato. Moretti è artista che al cinema ha dato molto, oltre ad aver preso più di qualche cosa. La battuta che i finanziamenti pubblici al cinema gli abbiano sovvenzionato in buona parte l’autoanalisi a macchine da presa unificate, da “uomo spiritoso” qual è, il regista però può passarla ai suoi critici.
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«All’editoria spiccioli, un miliardo al cinema», titolava polemicamente lo scorso dicembre il quotidiano La Repubblica, attuale centro di raccolta degli sfoghi di tutto lo star system progressista che vede a rischio il tesoretto sui cui si è abituata a contare. Ai David di Donatello, un paio di settimane fa, il compagno Elio Germano, accusando il governo di «agire come i clan» e di voler censurare, affamandolo, il cinema italiano, non ha fatto che rispondere all’incitazione alla rivolta lanciata da Moretti allo scorso Festival di Venezia. Premiato per il restauro di “Ecce Bombo”, il regista invitò attori e colleghi «a essere più reattivi nei confronti della nuova, pessima legge sulle produzioni». Detto, fatto; il braccio e la mente. D’altronde, c’è da sottolineare che la compianta legge di Franceschini aveva agito su Nanni come una sorta di Gerovital e forse per questo la rimpiange.
Nei vent’anni precedenti alla norma, il regista aveva prodotto solo quattro film (“La stanza del figlio” -2001; “Il caimano” - 2006; “Habemus Papam - 2011; “Mia madre” – 2016). Da quando però il ministero ha allargato i cordoni della borsa, al regista è miracolosamente risorta la vena creativa e ha sfornato due opere in due anni, “Tre Piani” nel 2021 e “Il sol dell’avvenire” nel 2023. Non serve essere un grande critico cinematografico per concludere che, quando “l’autarchico” deve affrontare il mercato e far sposare contabilità e arte, i lavori gli riescono meglio. Se invece a provvedere alle spese concorre in maniera robusta anche Pantalone, il risultato è alquanto fiacco; e non parliamo solo di botteghino, ma anche di valore dell’opera.
Arduo infatti sostenere che i 2,1 milioni di euro pubblici erogati per “Tre Piani”, che al botteghino hanno incassato meno di quanto sono costati alla comunità, o il considerevole esborso di 5,2 milioni, per un incasso inferiore di un milione tondo, non avrebbero potuto essere investiti meglio. Il primo film è l’epopea di un piccolo condominio dove diffidenze tra vicini e incomunicabilità in famiglia spingono i protagonisti verso destini tragici.
Non passerà alla storia, ma è un’opera dignitosa. Il secondo invece è un tentativo di manipolazione della storia per far credere che negli anni Cinquanta, ai tempi dei carri armati sovietici che soffocavano nel sangue la rivolta di Budapest del 1956, in Italia si poteva essere comunisti ma non stalinisti, quando invece il sanguinario dittatore dettava legge anche se ai tempi era morto da tre anni e che nel “gran partito” fosse ipotizzabile un dialogo etico sui principi della democrazie. Una panzana al confronto della quale Moretti che nel film telefona a Martin Scorsese per chiedergli consigli di regia pare un tocco di realismo. I più clementi l’hanno definita “opera visionaria”; forse l’aggettivo inutile sarebbe più calzante.
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Partiamo dalla buona notizia: le condizioni di Nanni Moretti «sono eccellenti e l’umore è ottimo&raqu...Da sempre Nanni mischia cinema e politica. Memorabile il suo rimprovero a D’Alema: «Ti prego, dì qualcosa di sinistra». Ma la propaganda a spese dei contribuenti non è indispensabile. Anche se, perfino ai tempi del “Caimano”, quando Moretti chiedeva meno e faceva meglio, qualche polemica sul denaro pubblico si era sollevata. Con Francesco Rutelli ministro della Cultura, il film ricevette 250mila euro una tantum come premio di qualità, decisione contestata da una sentenza del Tar del Lazio. Ma la fetta grossa della Sacher sono il milione e trecentomila euro avuto come contributo sugli incassi, con 67mila euro direttamente al regista a titolo di contributo all’autore. Ecce bombo...