La guerra del grano degli intellettuali del circoletto rosso

Nella mente dei progressisti l'Italia è in piena era fascista. E invece no, non è una dittatura: l'emblematico caso dei finanziamenti al teatro di Massini
di Mario Sechidomenica 22 giugno 2025
La guerra del grano degli intellettuali del circoletto rosso
4' di lettura

Nella mente dell’intellettuale di sinistra l’Italia è in piena era fascista, con la Ducia Giorgia che firma editti, mentre la macchina della propaganda guidata dal mefistofelico Giovanbattista Fazzolari soffoca la voce dei partigiani spiaggiati a Capalbio. Perbacco, guardateli, sono storditi, i raffinati cervelli, ma non dal manganello, è l’effetto dello spritz. Ne hanno fatto il pieno, se tutto va bene per un paio di legislature.

Ogni giorno i fogli democratici denunciano un gigantesco complotto della destra, una notte della democrazia, la fine della cultura, il dominio dell’ignoranza. Leggere Massimo Giannini su Repubblica è un viaggio psichedelico, è la scoperta di un mondo parallelo dove tutto è decadenza e rovina, teatro e cinema sono moribondi, i libri dei nuovi illuministi circolano in clandestinità.

Siamo alla dittatura, è chiaro, ma ora so, cribbio, finalmente ho capito che il teatrante Stefano Massini è un totem e qualsiasi cosa faccia non si discute, perché Egli possiede la verità. Tutti inalberati per difendere i finanziamenti al suo teatro. Ma non era arte? Macché, Sechi, che cosa mai ti viene da pensare, è sempre una questione di grana, ma trattandosi degli intellò, è fatto nobilissimo non vile pecunia. Sono un provinciale, lo ammetto, ma ora non mi sfugge il mio errore filosofico, la mia grezza pretesa di dire che in fondo voler fermare un sistema che regala soldi per fare film mai visti a un pluriassassino, è cosa buona e giusta. E invece no, non avevo colto l’essenza del piano della destra: lo stop ai soldi a pioggia per i cinematografari immaginari è un attentato alla cultura!

Sono un ragazzo di campagna, all’antica, mi piace ancora il teatro di Shakespeare e perfino quello di Ibsen, io di Massini ho visto dei monologhi in tv, una cosa che precede l’arrivo del becchino; quanto al cinema, non becchiamo un Oscar dai tempi della Grande Bellezza di Paolo Sorrentino, sul calendario era il 2014, sono trascorsi 11 anni e, penuria di statuette d’oro a parte, non mi sembra che i compagni cinematografari nel mondo facciano faville. Il mio carissimo nemico Giannini non è contento? Lo capisco, ma forse dovrebbe placare per qualche prezioso istante la sua furia antifascista e... guardarsi allo specchio.

Amici della sinistra intelligente, raffinata, fate un safari metropolitano, un salto nelle terrazze estive, un giro rapido nella Ztl, Giannini potrebbe perfino rientrare nella “chat 25 aprile” dalla quale era uscito e scoprire che il problema della cultura non è della destra- che non ha mai coltivato e praticato l’idea dell’intellettuale organico, missione impossibile dove regnano i solisti - ma della sinistra e dei suoi chierici. Che grande scoperta, la crisi della cultura italiana...

Compagni di Repubblica, ma da quale pianeta lontano siete sbarcati? Avete dato un’occhiata al circoletto dei premi letterari? Le recensioni dei libri sulle pagine dei giornali non vi dicono niente? E le presenze nei talk show forse non sono sufficienti per vedere la bancarotta culturale di chi è passato da Ignazio Silone a Roberto Saviano? Non penserete che l’Italia sia quella sceneggiata nel salotto televisivo di Lilli Gruber tutte le sere? Quella è fiction quotidiana, il racconto di un assedio immaginario, un sottosopra così grande che è smentito da quello che accade in studio, dove si è sempre nella pluralissima condizione del 3 contro 1, dove l’uno è il non allineato a sinistra.

Le cose più comiche sono quelle che dicono tutto, impietose: la tigre di carta progressista ha dimenticato con rapidità prodigiosa la grande battaglia culturale per difendere l’artista del nostro tempo, il simbolo della nuova resistenza, l’uomo che all’avvio della legislatura rappresentava chiaramente il disegno eversore della destra. Chi? Amadeus, come scordare quei momenti epici in cui l’uscita dalla Rai era il primo chiaro segno della dittatura, l’avvento di Telemeloni, la fine del servizio pubblico. Amadeus passò alla Nove, onusto di gloria partigiana, sembrava di vederlo mentre di fronte a lui si apriva il Mar Rosso, il Mosè della televisione. Tutto dimenticato. Anche gli ascolti dell’Amadeus, un pianto.

Il problema, cari amici della sinistra, è tutto vostro, è la biografia di una camarilla che è arrivata a fine corsa da qualche decennio, ma grazie alle rendite di posizione ha continuato a incassare ottimi compensi e mantenere il controllo della parola e dell’immagine. Ha funzionato per lungo tempo, oggi fa rumore, alimenta una macchina che parla a se stessa, replica sceneggiature, copioni, libri, format e si ritrova in un eterno happy hour nelle solite feste romane che d’estate traslocano da qualche parte, sempre dove c’è qualcuno che paga il conto per tutti, con le stesse facce, le biografie con il botox, le maschere svelate, i segreti che tutti conoscono, le complicità confermate a ogni cambio di stagione. Che meraviglia, il circoletto della cultura italiana, un club di sinistrati dalla storia.

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