La vita in un binario fatto di memoria. In bianco e nero. Diviso tra la disperazione e la speranza. Raoul Bova continua a strappare applausi nella sua versione più profonda, quella che lo vede sul palcoscenico teatrale come voce unica del bellissimo e difficile monologo in due atti intitolato Il nuotatore di Auschwitz, scritto e diretto da Luca De Bei con le musiche originali firmate dal primogenito di Raoul, il compositore Francesco Bova.
Il rinnovato successo – ultime date andate in scena a Torino con il plauso a scena aperta della comunità ebraica del capoluogo sabaudo – arriva a un anno esatto dal lancio in prima assoluta dello spettacolo, avvenuto alla fine dello scorso novembre al Teatro Parioli-Costanzo di Roma.
Allora con l’incognita che ogni nuovo spettacolo porta con sé sull’accoglienza che il pubblico avrebbe potuto riservare, oggi con la certezza di un successo che ha emozionato fino alla commozione e aperto spazi di riflessione capaci di andare anche oltre la retorica (che spesso diventa anche ripetitiva) della memoria.
Il nuotatore di Auschwitz, infatti, è la storia di un vincente, non di una vittima. Uomo, francese, ebreo, campione di nuoto: Alfred Nakache che riesce, quasi miracolosamente, in mezzo alla tragica temperie dell’Olocausto, a non perdere di vista il suo traguardo che non corrisponde più, però, alla cura del suo orgoglio, della sua carriera da mantenere viva, come il record mondiale conquistato in piscina quando lo sport era l’unico fine e la gara il modo in cui donare quel surplus di senso all’esistere. No.
Perché d’un tratto tutto il mondo si era spento, precipitando nell’orrore di una guerra fondata su menzogne, soprusi, discriminazioni, violenze nelle quali l’umanità, il talento, le etichette o le medaglie non contavano più nulla. A contare era rimasto un unico senso rimasto attaccato alla parola vita: salvare la pelle.
Sopravvivere era il traguardo a fine corsia. In una esistenza che in realtà non era nemmeno più vita. Messa di fronte alle più atroci brutalità e ridotta a respiro o poco più. Aria, soffio vitale che per Alfred probabilmente corrispondeva a nuoto. Ancora una bracciata, per poter andare oltre l’impensabile. Il personaggio di Alfred Nakache cui dà voce l’io narrante di Raoul Bova, è l’ennesimo nuotatore cui l’interprete capitolino presta la sua presenza attoriale ma quasi sicuramente il più complesso, difficile e al tempo stesso affascinante.
Bova recita con un soffio di voce. E riesce a portare in scena (prossimamente a Prato, Conegliano e Concorrezzo, Milano) tutta la tragedia testimoniata dall’altro protagonista dello spettacolo in due atti: Viktor Frankl, uno psichiatra austriaco che, subito dopo la liberazione, ha scritto un libro sull’esperienza vissuta e su coloro che, proprio come Nakache, sono riusciti a superare quella prova terribile. Uno spettacolo che «vuole essere una richiesta di vita, testimoniando la voglia di vivere e gli spunti per sopravvivere senza lasciarsi mai andare» aveva dichiarato l’attore romano. Un passo, o forse meglio sarebbe dire una bracciata, che a Bova è sembrata doverosa per dare anche un suo contributo. «Non, però, per portare negatività ma per dare ai giovani la possibilità di sapere il male fino a che punto può arrivare e quanto alcune persone hanno sofferto. Pensando, però, al tempo stesso che ci sono anche quelli che si sono salvati offrendo lo spunto a chi si trova tuttora in enormi difficoltà dalle quali non riesce ad uscire. A chi, in qualche modo, ancora oggi sta vivendo il proprio piccolo lager».




