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Dalla Mayer a Venezi se non sei compagna

All’epoca il biondo fece vedere rosso ai seriosi professori della Filarmonica di Berlino, adesso ha fatto andare in bianco gli orchestrali della Fenice di Venezia
di Marco Patricelli lunedì 17 novembre 2025

3' di lettura

L’oro della discordia musicale aveva ieri i riccioli di Sabine Mayer e oggi ha le chiome fluenti di Beatrice Venezi. All’epoca il biondo fece vedere rosso ai seriosi professori della Filarmonica di Berlino, adesso ha fatto andare in bianco gli orchestrali della Fenice di Venezia. Questione di nomine, di diritti e di privilegi. Ma resta insoluto il problema di fondo, ovvero la difficoltà ad accettare il concetto che l’orchestra non è una democrazia popolare ma una monarchia assoluta, in cui il direttore tiene sotto controllo vassalli, valvassini e valvassori nelle schiere di archi, legni, ottoni e percussioni.

La questione ideologica pensò di risolverla l’Unione Sovietica del 1922 che credette di sbarazzarsi nel nome del comunismo dell’ingombrante e dittatoriale bacchetta sul podio a dettare interpretazioni e tempi, varando una sorta di comune autogestita. Nacque così il Persimfans, contrazione delle parole russe di Primo ensemble sinfonico senza direttore. Una rivoluzione musicale nella rivoluzione bolscevica, e non c’era niente di più rivoluzionario. Si andò a ripescare il ruolo del primo violino, sostituendo il generale col sergente, un po’ come si era fatto con l’Armata Rossa dove nella prima fase si erano aboliti i gradi, le decisioni le prendevano i Soviet dei soldati e comandava chiunque passasse di lì e diceva di saperlo fare. Con risultati facilmente immaginabili, tant’è che si corse subito ai ripari rivoltando pagina e richiamando pure gli ex ufficiali zaristi.

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La novità orchestrale intrigò, ma la storia racconta che i direttori, come i generali, servivano eccome, e quindi il regime di Stalin li ricreò e li coccolò purché fossero ligi al potere e non svicolassero dal solco del realismo socialista dietro a modernismi che non piacevano al Cremlino. La rigorosissima Filarmonica di Berlino, che aveva avuto sul podio giganti quali Hans von Bülow, Arthur Nikitsch e Wilhelm Furtwängler, nel secondo dopoguerra si era affidata all’austriaco Herbert von Karajan con cui era stato stretto un sodalizio a vita che aveva contribuito ad alimentarne il mito come strepitosa macchina da guerra musicale e macchina da soldi con i concerti e il ricco mercato discografico.

L’autarchia di casta dell’orchestra prevedeva non solo la votazione a scrutinio segreto del gradimento al direttore, ma anche un esame di idoneità per i nuovi ingressi: tedeschi ligi al dovere e all’obbedienza della “bacchetta” certamente, ma prussiani inflessibili su certi aspetti della professione e della reputazione. Poi, nel 1983, Sua Maestà Karajan che dirigeva a occhi chiusi li spalancò di fronte alla bella clarinettista ventitreenne Sabine Mayer e decise che doveva entrare nella Filarmonica, nonostante i colleghi veterani (120 di cui 119 uomini e una sola donna, la violinista svizzera Madeleine Carruzzo che appena nel 1982 aveva infranto il monopolio maschile ritenuto fin allora inscalfibile) l’avessero bocciata due volte in altrettante audizioni per il ruolo di vice primo clarinetto.

Come un Persimfans di prima fascia, si rivoltarono al diktat dell’intoccabile Karajan, il quale non se ne diede per inteso e strappò un contratto a tempo determinato (un anno) per la Mayer, mettendosi contro i professori che da allora cominciarono a guardarlo in tralice. Risolse tutto la brava e non solo bella Sabine risolvendo il contratto alla scadenza e intraprendendo una fortunata carriera da solista senza il bollino blu dei Berliner Philharmoniker ma suonando con centinaia di orchestre di tutto il mondo e mietendo prestigiosi riconoscimenti per i suoi dischi. Se c’era stata o meno la lesa maestà all’onore degli orchestrali o a quello di Karajan lo ha giudicato la storia. I colleghi italiani della Fenice dopo il pronunciamento a oltranza contro Beatrice Venezi – perché la sostanza è questa, dovranno prima o poi piegare il capo alle scelte artistiche e interpretative del nuovo direttore. Che, a differenza di Sabine con Berlino, fedele al suo nome sembra voler restare in laguna.

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