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Pupi Avati: "La vecchiaia è l'età che riscopre il 'per sempre'"

di Lucia Esposito martedì 18 novembre 2025

5' di lettura

In un solo libro di centodiciannove pagine Pupi Avati riesce nella duplice impresa di raccontare il miracolo dell’innamoramento - che dell’amore è la parte più sorprendente ed eccitante - adagiato sul trono dei suoi 87 anni appena compiuti, un’età normalmente incline alla nostalgia che appanna il presente e oscura il futuro. In Rinnamorarsi. Cronaca di sentimenti veri e immaginari pubblicato da Solferino (per la nuova collana Notti bianche diretta da Isabella Borghese) il maestro del cinema italiano riavvolge la bobina della sua vita e rispolvera il passato senza annegare nell’onda dei ricordi ma per ritrovare il senso di ogni cosa.

Pupi Avati strappa la vecchiaia all’ineluttabilità della fine e le dona la possibilità dell’amore inatteso. E che cosa c’è di più imprevedibile e ardimentoso dell’innamoramento? È un libro intimo e universale, un testamento dell’anima che parla a ciascuno di noi. A partire dal titolo. In un’epoca in cui tutto si sostituisce e, con la stessa velocità con cui si cambia un elettrodomestico ci si innamora e poi ci si disinnamora, Avati racconta del suo ri-innamoramento, si è innamorato nuovamente della stessa persona, «di quella ragazza che mi incantò più di sessant’anni fa e che è tuttora mia moglie».

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In fondo, il suo è anche un libro sulla circolarità del tempo. Scrive: «L’innamorato ha una sola età, quella dell’adolescenza, quella in cui si è al culmine dell’immaginazione». Da vecchi si torna ragazzi, dunque?
«Da giovane non potevo immaginare che la vecchiaia riservasse questo nuovo atteggiamento verso la vita. Da anziano provi nostalgia per gli istinti, gli entusiasmi, i fulgori della tua prima giovinezza, quando innamorarsi era qualcosa di onnicomprensivo. A diciassette o diciotto anni l’innamoramento ti riempie la vita, non trovi spazio per altro. Vivi nell’attesa di uno sguardo della donna amata, di un incontro. Ed è proprio questo il sentimento che ho riscoperto nei confronti di mia moglie che ora guardo esattamente come la prima volta in cui l’ho vista passeggiare sotto i portici di Bologna».

Usa un’espressione bellissima: scrive che sua moglie è il «solo hard disk che contiene gran parte dei file della sua vita». I maligni diranno che deve farsi perdonare qualcosa o che confonde l’amore con la riconoscenza.
«Sbagliano. C’entra quel sentimento ineffabile per il quale non c’è una definizione esatta. Mia madre mi chiese: “Perché vuoi sposare proprio questa donna, tra tante”? Io non sapevo darle una risposta, ma sapevo che avevo la prova, la certezza, che fosse proprio lei. La risposta aveva a che fare con il sacro. Ho un forte senso del sacro che deriva dalla cultura contadina in cui sono cresciuto e mi ha lasciato questo imprinting: la sacralità dei rapporti personali».

Sua moglie ricambia il suo rinnovato amore?
«Gli amori non sono mai ricambiati, hanno sempre una direzione senza contraccambio ed è un po’ quello che accade in mia moglie. Oggi poi c’è il pudore che subentra nella vecchiaia. Non ci si abbraccia più, non ci si bacia».

Nel libro racconta il mutamento della cultura occidentale anche attraverso il lessico. Abbiamo cancellato il “per sempre”, per esempio.
«Una volta la locuzione avverbiale “per sempre” si usava impunemente nei riguardi di tutto quello che ci circondava. Volevi che il tuo amico del cuore fosse “per sempre”, che l’amore fosse “per sempre” volevi che tutto fosse “per sempre” e ti illudevi che potesse accadere. Senza comprendere che solo la morte è per sempre».

Oggi si usano spesso le parole “compagno” e “compagna” e anche questi termini per lei sono una cartina di tornasole di come siano cambiati i rapporti.
«Compagno allude alla precarietà che rende tutto più eccitante, spalanca l’unione all’imprevisto, non la seppellisce sotto la pietra tombale del matrimonio ma le lascia respirare la casualità di ogni incontro. Ci impegniamo ma fino a un certo punto, non per sempre. Resta aperta la possibilità di cambiare, di riconsiderare altri compagni».

Come spiega questo cambiamento?
«Come paura dell’assoluto».

L’innamoramento per sua moglie è deflagrante perché, come un sasso nell’acqua, si allarga sempre più.
«Ho imparato ad amare e ad essere grato alle mie gambe per i passi che hanno fatto, alle mie mani, ai miei libri, alla scrivania... È un sentimento che si diffonde su tutto, perché a un certo punto ho scoperto che avrei dovuto fare di più, usare meglio il mio tempo. E allora cerco di rimediare».

Ci può spiegare come si sente, esattamente?
«Come se mi dovessi preparare all’esame per antonomasia, quello di maturità. Ai miei tempi si dovevano portare tutte le materie dei cinque anni, ecco mi sto preparando ad andarmene come se fosse l’esame di maturità, recuperando affannosamente negli ultimi tempi tutto quello che non ho visto e non ho fatto solo per farmi trovare preparato».

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Ha paura della morte?
«No, la fine è protezione. È la fine di questa competizione continua che è stata la mia vita. Mi sono sempre sentito in competizione con tutti. A un certo punto questo finirà».

La morte come sollievo?
«Nella morte sei al riparo da tutto, non può accadere nulla, sei finalmente al sicuro».

Si è mai chiesto come sarebbe stata la sua vita se avesse continuato a vendere surgelati?
«Credo che sarei anche potuto diventare un dirigente di un certo livello con un riconoscimento economico permettendo alla mia famiglia di vivere lontana dai marosi a cui l’ho costretta per inseguire il mio sogno di fare cinema, ma così non avrei appagato quell’urgenza che avverto di raccontarmi e che mi accompagna da quando ero bambino».

A 87 anni sogna ancora?
«Sognare è molto difficile, ma ci si può provare».

Cosa sogna?
«Vorrei per esempio che questo libro arrivasse agli altri, che riuscisse a spiegare quello che ho capito della vita».

Ama ancora il cinema?
«Certo, ma adesso sono più innamorato delle cose della vita. Ho sempre messo il cinema al centro della mia esistenza e ho sacrificato molto gli affetti».

Se potesse tornare indietro?
«Vivrei di più i legami familiari, mi godrei la prima infanzia e l’adolescenza dei miei figli, per esempio».

Nel libro parla anche dei suoi incontri con i grandi della letteratura tra cui Pasolini per cui lavorò alla sceneggiatura di “Salò e le 120 giornate di Sodoma”. Che cosa ricorda di lui?
«Fu un’esperienza unica».

La sua lezione più grande?
«L’essenzialità».

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