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Champions League, il disastro degli allenatori italiani: il vero problema non sono i giocatori, ma in panchina

di Tommaso Lorenzini giovedì 18 febbraio 2021

3' di lettura

 Il bagliore da supernova con il quale Kylian Mbappé ha accecato l'imbarazzato e imbarazzante Barcellona ed ha provocato erezioni in serie ai pornografi-calciofili di casa nostra (ma, stavolta, caliamo tutti le braghe di fronte al francese) non deve trarre in inganno, Mbappé deve dire parecchie volte «merci», grazie, a quei ragazzotti italiani al suo fianco. Se, riguardo a Mbappé e Messi, è inflazionata la locuzione "passaggio di testimone" (ma occhio a dare Leo per finito, lo vogliono proprio i francesi), parecchio merito del 4-1 che ipoteca il passaggio ai quarti va a Verratti, Kean e Florenzi, protagonisti anche per la gioia del ct Mancini in ottica Europeo. Dietro tanta esaltazione, si impone tuttavia una riflessione. La vulgata tutta nostrana è ormai appiattita sul fatto che, nelle coppe europee, le squadre italiane non vincono più perché i giocatori non sono all'altezza, perché siamo imbottiti di stranieri spesso sopravvalutati, perché manca lo spirito di squadra, perché il sistema è obsoleto e quindi non fatturiamo abbastanza per giocarcela al pari degli altri colossi come Man City, Real, Bayern etc. La serata di gala del Psg ha dimostrato invece che le individualità italiane sanno stare benissimo in Europa, sanno giocare ad alto ritmo per tutta la partita, hanno bagaglio tecnico, tattico e di personalità. Prendiamo Marco Verratti. Nel 2012, a 20 anni, i parigini hanno scommesso a scatola chiusa su di lui (aveva solo fatto faville col Pescara di Zeman in serie B) e, a parte alcuni passaggi a vuoto fisiologici (anche per colpa di qualche infortunio), hanno avuto ragione. Oggi, a 28 anni, è nel pieno della maturità, la consapevolezza con cui ha tenuto il Camp Nou in mano e l'assist delizioso a Mbappé sono un manifesto. Moise Kean, classe 2000, è uno scarto della Juve per fare plusvalenza, all'Everton l'hanno preso e poi hanno preferito mandarlo in prestito al Psg, per fargli fare le ossa e per i buoni rapporti diplomatici, ma Ancelotti ha già chiarito: «Se vuol tornare qui sarà il benvenuto». È una testa calda, Kean, e lo sa, ma uno che può fare il centravanti (14 reti in stagione) o l'attaccante esterno (2 gol) e con quelle doti fisiche, sembra davvero il prototipo del calciatore offensivo del decennio appena iniziato. Una menzione speciale va ad Alessandro Florenzi, 30 anni l'11 marzo. Se n'è andato dalla sua Roma, capitano degradato, gli hanno fatto terra bruciata attorno, il club non credeva in lui, gli acciacchi e il muso lungo lo stavano logorando. Martedì ha mostrato sprazzi di seconda giovinezza: tenuta fisica, presenza mentale e verbale a dare consigli ai compagni, esperienza. Ma non era finito?

Ancelotti salva tutti - E allora il quesito potrebbe essere un altro. Non sarà che il problema delle squadre italiane e delle loro troppe figure magre in Europa sono gli allenatori italiani? Non si discutono preparazione e competenze, eppure non sarà che il "passo gara", l'intuizione vincente, l'occhio sintonizzato sul futuro ce l'hanno altrove? Dal 1955 (anno della creazione della Coppa Campioni, primo torneo continentale per club) ad oggi, il podio dei trofei europei portati a casa dagli allenatori delle varie nazionalità recita: Italia 50, Spagna 39, Germania 30 (comprese le leggendarie Coppe Intertoto: 5 Italia, 3 Spagna, 6 Germania). Dal 2000 a oggi, però, i trofei "veri" (Champions, E-League, Supercoppa Europea, Mondiale per Club) conquistati dai vari mister sono stati 5 per i tedeschi, 20 per gli spagnoli e11 per l'Italia. Di questi, ben 8 appartengono al solo Ancelotti, evidentemente mosca bianca capace di attraversare generazioni calcistiche in qualità di punto di riferimento; nel 2004 Ranieri vince la Supercoppa Europea col Valencia; nel 2012 Di Matteo alza la Champions col Chelsea ma dal 2016 non ha più una panchina; nel 2019 Sarri conquista l'E-League per il Chelsea, ultimo titolo europeo per un allenatore italiano, non a caso quello dal gioco più rivoluzionario degli ultimi anni. Forse, dunque, il problema è nel manico?

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