La gara a “costruire un episodio di razzismo anche se non c’è” la vince... non si sa. Forse la Rai, forse il Corriere della Sera, forse la Gazzetta dello Sport, forse tutti e tre o forse ancora qualche altra testata online capace di battere sul tempo i tre “giganti” nella competizione all’ultimo clic per strappare un moto di disgusto ai lettori. Rimaniamo senza un trionfatore ufficiale e, in realtà, forse è meglio così, non ci interessa neanche, non ci sogniamo di invocare l’intervento del Var sebbene faccia tutto molto ridere (o irritare, dipende dal punto di vista).
Certo che gli iscritti al via della corsa all’indignazione automatica sono parecchi: del resto la visibilità è garantita, lanciare accuse di discriminazione seppur generiche è un esercizio che nessuno si sognerebbe mai di criticare, per non correre a sua volta il rischio di sentirsi dire che spalleggia i razzisti, quindi il risultato è garantito.
Poco importa, poi, se si coinvolgono - strumentalizzandoli- ragazzi o ragazze che di polemiche di questo tipo non sanno che farsene, o addirittura preferirebbero starne alla larga visto che la loro testa deve essere impegnata da ben altro.
L’ultima trascinata dentro il ventilatore del buonismo a tutti i costi è stata Sara Curtis, la scoppiettante 18enne promessa del nuoto italiano che, dopo aver illuminato i Mondiali di Singapore diventando la prima italiana ad accedere alla finale dei 100 metri stile libero (gara chiusa in ottava e ultima posizione, ma iniziare ad annusare che profumo hanno quei momenti e quelle avversarie è la strada maestra per costruire una campionessa). Appena messa la testa fuori dall’acqua, Sara si è sentita dire che sui social l’avevano ricoperta di insulti per il colore della pelle, lei che è figlia di papà piemontese e mamma nigeriana. L’inviata di Raisport l’ha incalzata sull’argomento strappandole un sorrisone spettacolare e la risposta che desiderava: «Gli odiatori? Devo dire che è grazie a loro che ho fatto il record stamane. Mi danno grandi motivazioni per cui posso considerarli i primi fan. Poi, dicano quello che vogliono».
A pesce ci si è buttato pure Massimo Gramellini, che nell’ultimo caffè trangugiato prima di mandare in ferie la sua rubrica estiva in prima pagina, sul Corriere, ci teneva a farci conoscere il comprensibile ribrezzo per «la consueta parata di insulti razzisti ai danni di Sara Curtis».
Perfetto. Niente da ridire. Sennonché di questo tsunami razzista infrantosi sulle piscine di Singapore non c’è traccia, al netto di qualche commento che certamente qualche imbecille avrà vergato ma che non abbiamo visto né merita citazione. Di più. È stata la stessa Sara a buttare a mare ogni polemica: «Tra semifinali e finali ho ricevuto un sacco di bei messaggi, non ho ricevuto insulti di nessun genere e se li avessi ricevuti mi avrebbero trasmesso ancora maggiore grinta. Il razzismo resta un tema sociale ovviamente importante, però rimacinare sempre sopra le cose quando non succedono non è bello», ha dichiarato prima della semifinale dei 50 stile libero (chiusa col nono tempo, fuori dalla finale per 3 soli centesimi, lei che in batteria ha stabilito il nuovo primato italiano in 24”41).
E dunque? Dunque i cantori del razzismo a costo zero colpiscono ancora, costruendo un caso che non esiste: una pesca a strascico che riempie le reti e fa altrettanti danni del razzismo reale. Sfogliando la Gazzetta dello Sport di ieri ci si imbatte in una doppia pagina dedicata proprio alla Curtis definita «La nostra Sara» che «nel futuro va oltre il razzismo». Peccato che le parole citate dalla Rosea («Alcuni scrivono che i miei record italiani in realtà sono nigeriani. Sono frasi che mi fanno ribrezzo) e rimbalzate il giorno precedente su molti portali risalgano a maggio, intervista del Corriere, il quale le aveva furbescamente rilanciate come fosse un affare caldissimo sul proprio sito due giorni fa. Mentre di caldo nel «futuro» di Sara ora c’è il ritorno negli Usa, alla Virginia University, dove crescerà come atleta e donna e, si spera, lontana dalle polemiche tutte italiote.