Stefano Tacconi oggi sorride, anche se la vita gli ha imposto una sfida durissima. “Mi sto abituando a tutto, persino alle sigarette elettroniche — racconta — ma non al tempo che passa”. E lunedì il tempo gli presenterà un conto speciale: i quarant’anni dalla Coppa Intercontinentale del 1985, quando a Tokyo parò due rigori agi argentini dell'Argentinos Juniors e consegnò alla Juventus un trofeo storico.
Tacconi, che da allora dice di aver “vissuto almeno quattro vite”, parla con la schiettezza di sempre. “Sto meglio, faccio solo due sedute di fisioterapia a settimana”, spiega. “Dell’ictus e del coma ricordo poco. Spero di aver vinto un’altra partita ai rigori”. Il traguardo ora è camminare senza bastone: “Mi prende in giro anche Platini”, racconta divertito. “Quando mi ha visto arrivare con Cabrini e Brio ha detto: ‘Ma come abbiamo fatto a vincere tutto con questi qua?’”.
Il portiere ripensa a quella Juventus “affamata e piena di umanità”, diversa da un calcio dove “i ragazzi baciano la maglia e hanno già firmato da un’altra parte”. E rievoca anche i giorni di Tokyo: “Eravamo stressati, così due giorni prima sono andato a cercarmi un po’ di compagnia… e ne fui molto soddisfatto. In campo ero il più rilassato”. Tacconi rivive i rigori parati grazie allo studio degli avversari, “non potevano fregarmi”, e ricorda con affetto il calcio di punizione di Maradona: “Un onore prendere quel gol. Siamo diventati immortali insieme”. Di Diego dice che “mi stimava perché avevo il coraggio di dirgli in faccia le cose”.
Parla anche del proprio percorso personale: l’Heysel, l’amicizia con ex compagni, il terremoto in Irpinia vissuto ad Avellino, “quando i calciatori stavano dentro la vita”. Oggi il calcio lo appassiona poco, “una noia mortale”, ma resta juventino fino al midollo. E sulla Juve concede un ultimo sorriso: “Ritornerà. Ma serve pazienza. Io sono il primo tifoso”.