Lombardia, Lazio e Calabria: sono queste le basi della mafia turca in Italia. I territori che offrono contatti, alloggi sicuri e affari milionari con droga, contrabbando e immigrazione clandestina.
Un asse geografico che si è consolidato nel silenzio restituendo l’immagine di un’organizzazione capace di replicare in Italia le dinamiche del crimine nato nei sobborghi di Istanbul, con regole, gerarchie e simboli propri. La mafia turca si è radicata nel nostro Paese in modo sotterraneo ma progressivo, trasformando aree apparentemente marginali in basi operative per traffici globali. Come Viterbo dove, nel maggio del 2024, è stato catturato Boris Boyun, figura chiave della “mafia del Bosforo”.
Ufficialmente ai domiciliari a Bagnaia, piccolo centro del capoluogo, Boyun era considerato il “fratello maggiore” della malavita turca in Europa. A capo della cosca nota come “la gang dei Dalton” – riferimento ironico ai personaggi del cartoon Lucky Luke – il boss si muoveva con un seguito di affiliati spietati e addestrati che poco hanno a che fare con lo stile spaghetti western da giornaletto adolescenziale.
L’arresto di Boyun, tuttavia, non è rimasto isolato. Quasi dodici mesi dopo, le manette sono scattate per Ismail Atiz, detto “Hamus”, altro nome centrale nel panorama mafioso turco. A differenza del rivale, Atiz guida un clan che si rifà al personaggio di Casper, “il fantasmino”, ma anche in questo caso l’immaginario popolare maschera un’organizzazione temibile e priva di scrupoli. Specializzati in sequestri, narcotraffico ed estorsioni, i “Casperlar” si distinguono per una presenza massiccia sui social, in particolare TikTok, dove postano contenuti tra l’intimidazione e l’autocelebrazione. Usano maschere bianche per nascondere i volti e costruire un’identità riconoscibile ma anonima, utile per reclutare giovani disperati dai quartieri più poveri di Istanbul.
L’Italia, per entrambi i clan, è terra di cooperazione forzata. In patria si combattono, ma qui collaborano. I Dalton e i Casperlar si sono spartiti rotte e profitti, stringendo patti temporanei con gruppi già radicati: la mafia albanese, la camorra, la ‘ndrangheta. Insieme controllano il traffico di eroina che parte dall’Afghanistan, transita per la Grecia e giunge sulle nostre coste in container o camion. In alcuni casi, la droga è nascosta nel corpo stesso degli ovulatori, corrieri che ingeriscono “pacchetti” di cocaina ed eroina.
Accanto agli stupefacenti, la mafia turca ha investito in un altro business strategico: l’immigrazione clandestina. I disperati arrivano su barche a vela dall’Asia Minore e dalle isole dell’Egeo. Gli sbarchi si concentrano sulla costa calabrese e lungo l’Adriatico, con scali intermedi in Albania e Montenegro. L’organizzazione turca agisce in sinergia con gruppi georgiani, ucraini e moldavi, offrendo viaggi a pagamento e coperture per 3mila dollari a persona.
In parallelo, le cosche coltivano il contrabbando di sigarette, altra voce stabile nel bilancio della criminalità anatolica. I porti utilizzati sono sempre gli stessi: Ancona, Bari, Brindisi, Trieste. Le merci entrano mescolate a carichi regolari, poi finiscono sui mercati paralleli. Per rendere invisibili i flussi di denaro, le gang turche adottano un sistema antico ma efficace: la rete hawala. Ovvero, trasferimenti fiduciari senza passaggi bancari basati su referenti locali. È un metodo difficile da intercettare, perché non lascia tracce scritte né codici identificativi. Il contante viaggia per mano o attraverso mediatori di fiducia, rendendo le indagini bancarie praticamente inutili.
È in questo contesto che va inserito il blitz a ridosso della festa di Santa Rosa a Viterbo di qualche giorno fa. Quando due cittadini turchi, Baris Kaya (22 anni) e Atik Abdullah (25), sono stati fermati in possesso di una mitragliatrice, una pistola e tre caricatori. Inizialmente si è pensato a una pista terroristica, poi smentita. Il giorno dopo, a poca distanza, a Montefiascone, in un bed & breakfast, sono stati identificati altri cinque connazionali. Tre avevano documenti in regola, due risultavano richiedenti asilo. Tutti alloggiavano sotto lo stesso nome: “Ildyz Agdogan”. Gli investigatori sospettano che si tratti di un nome collettivo, una sorta di alias “sicuro” usato per le prenotazioni in strutture ricettive della zona. Ai mafiosi del Bosforo piace giocare con la linguistica, è evidente. Ma dietro i nomi buffi e le spiritosaggini da fumetto c'è un mondo di paura e morte che non va sottovalutato.