L'editoriale
di Maurizio Belpietro
Berlusconi ha annunciato che giovedì in Consiglio dei ministri presenterà la riforma della giustizia. In sé non è una novità: a memoria credo che le prime intenzioni di mettere mano alla questione risalgano a oltre quindici anni fa, cioè al giorno in cui il Cavaliere diede vita a Forza Italia. Come è noto, i buoni propositi furono bloccati da un avviso di garanzia che tagliò le gambe al cen- trodestra e spinse la Lega a staccare la spina al governo e a spianare la strada alla vittoria di Prodi. Non andò meglio al secondo governo di Silvio: sebbene non vi siano state crisi che ne ab- biano abbreviato la vita, l'Udc e in parte An fre- narono il varo della riforma, probabilmente per- ché, pur essendone alleati, i due partiti preferirono un Cavaliere ostaggio dei pm a uno libero di agire senza condizionamenti della magistratura. Anche quei pochi cambiamenti che riuscì ad apportare, nonostante Casini e Fini, furono poi cancellati dal centrosinistra, il quale con Prodi fece quasi nulla, se non appunto il piacere alle toghe di annullare ciò che di buono era stato fatto da chi lo aveva preceduto. Se, come detto, fino a oggi Berlusconi ha incontrato molti ostacoli alla realizzazione di un valido intervento sulla giustizia, adesso non può più accampare scuse. A impedirgli una riforma davvero epocale, come ha annunciato ieri di vo- ler fare, non ci sono né il leader dell'Udc né l'ex capo di An, il quale finalmente ha gettato la maschera rivelandosi per quello che è: un nemico. Al contrario la Lega sta sostenendo il governo lealmente, confermando il suo appoggio anche nei momenti più difficili. Dunque, ciò che ieri era impossibile oggi è a portata di mano, anche se poi dovrà passare il vaglio di un referendum confermativo. Per essere veramente epocale, la riforma dovrà però non essere timida e contenere alcuni provvedimenti, che qui, in forma schematica vorrei riassumere: non per dar lezioni - non ne avrei titolo -, ma come ideale promemoria in vista del Consiglio dei ministri di questa settimana. Innanzi tutto l'obbligatorietà dell'azione penale. Quando fu concepita mirava a garantire che tutti i reati fossero perseguiti indistintamen- te, senza esclusione o preferenze. Ogni cittadino, rivolgendosi a un pm, avrebbe dovuto otte- nere che si aprisse un'indagine e ogni delinquente avrebbe dovuto rispondere delle proprie colpe senza beneficiare di discrezionalità. Nella pratica le cose non sono andate così, perché, essendoci molti reati, ogni magistrato, anche quello in buona fede, privilegia alcune in- chieste rispetto ad altre. Se poi è alla ricerca di notorietà o di far carriera fuori dalla magistratura, sceglie di mandare avanti con rapidità i provvedimenti che potranno assicurargli il raggiungimento degli obiettivi. Che così funzioni lo sanno anche le panche delle aule di giustizia, ma soprattutto lo ricorda ogni anno la relazione del presidente di Cassazione, nella quale sono evidenziati tutti i reati rimasti impuniti: generalmente quelli comuni, che riguardano i cittadini ma non fanno notizia. Visto che non è più obbligatoria, è giunta l'ora di stabilire quali sono i reati di maggior allarme sociale e di costringere la giustizia a occuparsene senza distrazioni. Succede in altri Paesi, perché da noi no? Il Consiglio superiore della magistratura. Nei propositi dei padri costituenti, il Csm era lo strumento per sottrarre i giudici all'influenza della politica; in realtà dopo sessant'anni è evidente che l'organo di autodeterminazione delle toghe è servito solo a sottrarre i magistrati dalle loro responsabilità. I quali possono essere fannulloni o matti, ma anche quando commettono palesi violazioni non sono chiamati a risponderne. Che si dimentichino per dieci anni di dare esecuzione a un verdetto o impieghino due anni per scrivere 7 pagine, che scordino per 6 mesi in cella una persona che dovrebbe essere scarce- rata o vadano in vacanza a spese di una società su cui forse avrebbero dovuto indagare, i giudici sono sempre assolti. Al massimo ricevono un buffetto, tipo la perdita di qualche mese di anzianità, ma continuano a rimanere al proprio posto e a beneficiare degli aumenti automatici che li fanno salire di grado. Il Csm più che un organo di autogoverno è un organo di autopromozione, dove le correnti tutelano i propri associati garantendo le promozioni e le destinazioni cui essi ambiscono. Cane non mangia cane. Mai proverbio fu più appropriato. Così com'è il Consiglio superiore della magistratura impedirà sempre che nella giustizia siano introdotti criteri di merito e di selezione. Essendo l'espressione di un compromesso fra gli stessi protagonisti che dovrebbero essere giudicati in caso di provvedimento disciplinare, non potrà mai essere indipendente. Se vuole davvero cambiare, Berlusconi deve cominciare da qui. La responsabilità civile. In tutte le altre categorie, dai medici agli architetti, vige il principio che chi sbaglia paga. Se un chirurgo non opera come dovrebbe, ne risponde sia penalmente che civilmente. Se un architetto costruisce una casa sbilenca, viene citato in giudizio. I magistrati no. Se sbagliano e mettono in galera un innocente, lo Stato paga e loro fanno carriera. Non faccio nomi, perché dire che un pm ha sbagliato è già reato: ne sanno qualcosa i cronisti che in questi anni si sono occupati di orrori giudiziari, cioè di gente innocente sbattuta in galera senza lo straccio di una prova o con accuse palesemente infondate. Ma che questo sia un problema grave lo dimostrano i risarcimenti che il ministero della Giustizia versa e le sentenze della Corte europea che condannano l'Italia. Molti anni fa gli italiani votarono in maggioranza per la responsabilità civile dei magistrati, ma il Parlamento se ne impippò e trovò il sistema di ag- girare il voto. Il governo ora ha la possibilità di riparare. Anzi, il dovere. L'immobilismo della giustizia. Grazie all'autonomia che tutela ogni magistrato, di fatto giu- dici e pm sono inamovibili. A meno che non siano loro a decidere di essere trasferiti. In pratica, se c'è un tribunale dove le toghe scarseggiano e un altro dove l'organico è al completo, non si può decidere di spostarne neppure uno là dove c'è bisogno. Né, se vi sono magistrati inesperti o poco adatti a occuparsi di una determinata in- chiesta, si può avvicendarli rimpiazzandoli con altri più adatti. Se vuole, anche se è un incapace e lascia marcire i processi, il pubblico ministero è a vita e così pure il collega giudicante. Fatta salva l'autonomia, è evidente che così un tribunale non può funzionare: se casca bene, con gente capace ed efficiente la giustizia viaggia che è una meraviglia, ma se per caso si ha la sfortuna di trovare uno scansafatiche o un idiota, addio. Ovviamente si potrebbe continuare con la separazione delle carriere, i test psico-attitudinali, le verifiche di produttività, la formazione e altro. Ma non vorrei scendere troppo nel dettaglio, anche perché credo che i quattro punti fin qui indicati siano quelli fondamentali. Ne aggiungo un quinto, che c'entra poco con la giustizia, ma a molto a che fare con chi la deve approntare. Senza reintrodurre l'immunità parlamentare credo sarà impossibile varare una riforma degna di un tal nome. Le toghe la fermeranno come hanno fermato le altre in sessant'anni. Berlusconi ricordi ciò che disse un leader dc a un recalcitrante ministro della Giustizia: dagli gli aumenti che vogliono, altrimenti qui ci arrestano tutti. Ecco, prima che portino via deputati e senatori, impedendo l'introduzione di una legge che faccia cambiare la musica nei tribunali, il Cavaliere ripristini l'immunità e poi vari una riforma, con o anche senza il consenso dei giudici. Lo faccia, il tempo stringe e le scuse non salvano più nessuno. Neanche lui.