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Vittorio Feltri: "Walter Tobagi ucciso dai comunisti, la loro squallida medaglia. Il piano ordito negli scantinati del Corriere"

Vittorio Feltri
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Sono persuaso che i nostri lettori non sappiano chi fosse Walter Tobagi. Sono passati 40 anni da quando fu assassinato da un gruppo di deficienti comunisti, allora dominanti con la loro spietatezza incosciente. Erano tempi di terrorismo e praticamente i cittadini si erano abituati alle gambizzazioni e agli omicidi. Ogni giorno una vittima. Chi non era rosso e non aveva sete di sangue era considerato un nemico da abbattere. Lo slogan che andava per la maggiore era: uccidere un fascista non è reato, è un dovere del proletariato. Oddio, i proletari esistevano ma non sparavano, lavoravano, mentre i fighetti già protagonisti del cosiddetto Sessantotto si esercitavano su bersagli bipedi con la P38. Erano gli antesignani non della pulizia etnica, bensì di una rivoluzione idiota e ignorante quanto loro. Quando ero nel 1973 cronista della Notte, quotidiano del pomeriggio diretto da Nino Nutrizio, un gigante della professione, ogni tanto ero comandato di recarmi all'università statale dove i cretini tenevano assemblee su argomenti assurdi. Bisognava riferirne, ma se avessi detto in portineria che scrivevo per un foglio borghese non mi avrebbero fatto entrare e forse sarei stato picchiato. Usava così. Mi spacciavo per cronista dell'Ansa, considerata asettica. Questo per dire quale fosse il clima imperante. Poi fui assunto, nel 1974, al Corriere di informazione, qui conobbi Tobagi. Lavoravamo gomito a gomito. Diventammo amici. Eravamo coetanei. Lui proveniva da un periodico sportivo, Milan-Inter ed era già bravo, ma scriveva poco. Forse si preparava al grande salto. In effetti fu chiamato al Corriere della Sera, settore politico. E qui fece il miracolo sindacale di mettere in minoranza la componente comunista, impossessandosi del comitato di redazione al quale impresse una linea moderata. Grave colpa che gli fecero pagare caro. Mentre governava con grande abilità diplomatica le questioni interne alla redazione, un giorno mi incontrò sulle scale e mi propose di seguirlo al Corrierone. Accettai al volo. Fui introdotto anche io al settore politico, su consiglio dello stesso Walter, benché io preferissi la cronaca. Ma mi fidavo di Tobagi, conoscendone la perizia manovriera. Cosicché per un po' di tempo lavorammo ancora insieme.

Inviato speciale - Quando Piero Ottone se ne andò dalla direzione e gli subentrò Franco Di Bella, a suo modo un genio, Walter fu promosso inviato speciale e questo gli costò parecchio. Vergava articoli splendidi sul fenomeno dell'epoca, appunto il terrorismo, e nel giro di pochi mesi la sua firma divenne importante, un riferimento politico e culturale, in un ambiente - via Solferino - in cui il binomio falce e martello era stampato nei cervelli dei colleghi. Va da sé che il neo inviato fu additato quale nemico del popolo. Ecco perché negli scantinati del Corriere fu ordito il piano per stecchirlo. Il che avvenne nel 1980 quando ormai Tobagi era lanciato e si accreditava come prossimo direttore del primo quotidiano italiano. La morte sua è stata una squallida medaglia conquistata dai comunisti, gli stessi che oggi danno la caccia ai fascisti inesistenti. Quelli che lo hanno ammazzato per questioni falsamente ideologiche erano figli di papà convertitisi al bolscevismo senza conoscerlo. Un branco di imbecilli privi di arte e parte. Allorché giunse la ferale notizia, alcuni di noi amici di Walter ci recammo sul luogo dove era avvenuta la tragedia, e capimmo subito, pur annebbiati dal dolore, chi e perché aveva sparato. Tobagi era un cattosocialista, uomo mite e ragionevole, ma dal temperamento tipico dei leader, era incapace di piegarsi. Oggi la moltitudine dei colleghi l'hanno dimenticato, facendo torto a se stessi avendo perso la stella polare. Io gli devo gratitudine perenne e lo dico apertamente. Caro Walter, senza di te il Corriere si è impoverito non solo di idee ma anche di ideali. Mentre i tuoi sporchi assassini non hanno neppure scontato la pena che meritavano. Già. Erano virgulti della razza padrona. Ma noi che ti abbiamo voluto bene e stimato non possiamo dimenticare il tuo sacrificio e in memoria di te ci viene perfino voglia di recitare una preghiera, sapendo che tu eri credente. P.s.: Mi corre l'obbligo di rammentare che la mattina in cui il nostro valente compagno di lavoro fu abbattuto su un marciapiede di Milano, il primo ad accorrere per sincerarsi dell'accaduto fu l'editore del nostro amato Corriere: Angelo Rizzoli, colui che aveva assunto Walter e anche me. Lo vidi impalato davanti al corpo esanime, estrasse un fazzoletto bianco dalla tasca dei pantaloni col quale si asciugò le lacrime.

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