Ricordi

Vittorio Feltri e la morte del gatto: "Quasi mi vergogno a confessarlo, ma ho sofferto più che per la morte di papà"

Vittorio Feltri

Ieri su la Repubblica ho letto un bellissimo articolo di Michele Serra a proposito di un libro di Filelfo, riguardante gli animali. Che anche io amo fin da quando ero bambino e scendevo in giardino per coccolare i micetti partoriti da una gattona rossa custodita dalla cameriera di un generale, nostro condomino. Avrò avuto cinque o sei anni, all'epoca, e nessuno mi aveva insegnato a rispettare la natura, a osservarla, non dico studiarla. Cosicché guardavo e accarezzavo con tenerezza i tre animaletti che giocavano tra loro con una energia sconosciuta a noi umani. Rimanevo ore ad ammirare l'agilità della cucciolata e in cuor mio covavo il desiderio di portarla nella mia stanza per accudirla e custodirla, per sempre. Il mio istinto mi conduceva a legarmi ai felini e soffrivo perché i miei genitori mi impedivano di adottarli.

 

 

Da allora ad oggi non sono cambiato. Provo per i quattro zampe una attrazione forte. Nel corso della mia lunga vita mi sono dedicato agli animali con lo stesso slancio, forse di più, che ho riservato ai miei quattro figli, troppi a dire il vero, ma tant' è. Avevo quattordici anni quando una ragazza mi regalò un piccolo gatto assai peloso. Avevo l'età ormai per imporre la mia volontà in famiglia, e mi tenni il soffice quadrupede. Lo chiamai Vècio e non mi separai più da lui. Lo imboccavo, gli parlavo, la sera veniva a letto con me, si accucciava non sopra ma sotto le coperte. Dormivamo sempre insieme. Quando si ammalò e morì piansi a lungo, il dolore fu così acuto da superare quello patito per la perdita di mio padre, avvenuta anni prima. Mi vergogno quasi a confessarlo, eppure è così. Poi ho avuto e ho ancora vari gatti e per ciascuno di loro ho nutrito un sentimento intenso che non riesco a giustificare. Durante la mia esistenza mi è capitato, spiegavo, di avere quattro figli con i quali ho abitato in un elegante edificio al centro di Bergamo. Peccato che i ragazzini fossero condannati a campare tra mura tutto sommato anguste, privi di uno spazio all'aperto dove sfogare il loro bisogno di scalmanarsi in libertà.

Pertanto decisi che ci saremmo trasferiti in una cascina nei pressi di Treviglio, dotata di un praticello recintato. Acquistai un cavallo, Miguel, una cavallina che gli faceva compagnia, un cane, una capretta, una gallina e ovviamente ospitai un gattone randagio, Agostino. I bambini crebbero senza intralci e io imparavo le mosse del mio bestiario. Cosicché scoprii che la gallina non è scema come erroneamente ritenevo, bensì è più intelligente di un giornalista medio. Indagai con attenzione la capretta e anche essa mi convinse di essere un genio, mi seguiva e belava se non le prestavo adeguate attenzioni. Del cane inutile parlare, aveva assunto il ruolo di balia della mia prole: la mattina svegliava i ragazzi, li accompagnava a scuola e andava a riprenderli al termine delle lezioni. Quanto al cavallo, racconto un unico episodio significativo. Con lui un pomeriggio mi recai a spasso nei campi di granturco, scese la nebbia e mi persi. Girai a vanvera nei viottoli di campagna per un paio d'ore finché, nella più cupa disperazione, allentai le redini e mormorai a Miguel: «O mi porti a casa tu o stanotte dormiamo all'addiaccio». Cinque minuti dopo eravamo davanti al cancello della mia abitazione. Un miracolo indimenticabile. Un paio di lustri appresso Agostino, passato oramai a peggior vita, in seguito a battaglie amorose (allora i gatti erano interi) lasciò che i topi ballassero in cascina.

Una notte, tornando dal Corriere dove lavoravo, mi accomodai in sala da pranzo, sul tavolo campeggiava una specie di cena fredda preparata da mia moglie, ormai dormiente come tutta la figliolanza. Ero abituato a nutrirmi in solitudine a quell'ora. Alzai lo sguardo e notai sul bracciolo di una poltrona un topolino minuscolo e, aggiungerei, carino. Aveva gli occhi a punta di spillo e mi fissava incuriosito. Sbocconcellai un pezzetto di grana e glielo porsi delicatamente allo scopo di non spaventarlo. Non si ritrasse. Mangiò le briciole e scomparve. Da quella volta, per cinque o sei mesi, il ratto si presentò al mio desco puntualmente, sempre allo stesso posto, evidentemente in attesa di cibarie. Che gli fornii regolarmente senza provare ribrezzo bensì affetto.

 

 

Vi risparmio altri racconti commoventi tranne uno, che vi narro. Ebbi una gatta, regalatami da Antonio Terzi, vicedirettore del Corriere, che chiamai Amalia. Rimase con me molto tempo. A tarda sera, un paio di volte, allorché eravamo tutti a nanna, si illuminò il salone. Mia moglie ed io concludemmo che uno dei figli facesse il cretino nel nostro grande alloggio divertendosi a manovrare l'interruttore della luce. Mi alzai per scoprire la verità ed ecco Amalia accovacciata su un mobiletto sopra il quale stava il pulsante dell'elettricità con cui si esercitava ad accendere e spegnere. La medesima micia aveva l'abilità di aprire il frigorifero, si serviva da sola (specialmente di salamini), richiudeva lo sportello. La mia sposa incolpava dei furti i nostri piccoli, invece la colpevole era la gatta. Mi rendo conto che questi episodi siano più divertenti che non rivelatori dell'arguzia animalesca. Tuttavia in me inducono profonde riflessioni, spero succeda pure a voi.