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Vittorio Feltri, il racconto degli eroi cresciuti negli orfanotrofi (e il terrore di finirci)

 Vittorio Feltri

Vittorio Feltri
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A noi uomini di questi tempi assai bui non piacciono gli orfanotrofi, che consideriamo luoghi tetri nei quali si ricoveravano ragazzi sfortunati, rimasti senza almeno un genitore. Quando ero piccolo, avevo sei anni e mio padre era già morto, in casa venivo regolarmente minacciato: se non fai giudizio, caro bambino, ti mandiamo in collegio. Ero terrorizzato di finire davvero lì dove supponevo avrei patito sofferenze micidiali. La sera, quando andavo a letto, le donne da cui dipendevo mi costringevano a recitare le preghiere, esercizio che mi deprimeva anche perché mi richiamava la tetraggine dell'istituto riservato ai ragazzi rimasti senza genitori.

Fino a una certa età vissi col terrore di finire nelle oscure camerate dove trascorrevano le notti i miei coetanei più sfortunati. Peraltro confesso: odiavo gli orfani e il loro abbigliamento grigio. Li osservavo con orrore quando seguivano i funerali. Allora usava così. Se uno moriva, veniva accompagnato al cimitero non soltanto dai familiari, ma anche dagli orfanelli ingaggiati dai preti per gonfiare la schiera dei dolenti.

Io guardavo stupefatto il corteo, studiavo lo sguardo avvilito di coloro che sfilavano e speravo che mi fosse risparmiata l'umiliazione di seguire i feretri. Mi è andata bene, il destino mi ha evitato questo ti po di terribile e temuta penitenza. Sennonché, crescendo, lentamente ho cambiato idea in base ai fatti.

Mi sono accorto che gli allievi dei Martinitt sono diventati grandi, rafforzati probabilmente dalla solitudine. Il collegio milanese, dove essi hanno imparato un mestiere o hanno studiato, ha fornito alla società una schiera di professionisti indefessi e di rara abilità. Cito due esempi clamorosi. Il primo, Angelo Rizzoli. Entrò in comunità ancora fanciullo e non smise mai di lavorare, senza lamentarsi né tantomeno protestare. Imparò ben presto l'arte tipografica, della quale divenne maestro ineguagliabile. Poco meno che ventenne comprò a credito un piccolo capannone dove installò i macchinari che servivano per stampare. Nel giro di pochi mesi l'attività sotto la sua guida esplose, si ingrandì parecchio e divenne uno dei primi stabilimenti tipografici del capoluogo lombardo. Un miracolo. Ma Angelone Rizzoli non si accontentò del primo successo. Si gettò nel ramo editoriale e fondò una serie di giornali, tra cui Oggi, poi L'Europeo, Anna Bella, Novella Duemila, e li portò a mostruosi livelli di tiratura, competendo con Mondadori. La sua casa editrice non ebbe mai bisogno di crediti bancari, infatti il suo fondatore usò soltanto soldi suoi anche quando si impegnò nel settore cinematografico.

Ebbi l'onore di conoscere Angelo il vecchio, col quale conversai alcuni minuti. Mi disse: vedo che lei è timido e parla poco, vada avanti così e andrà lontano. In realtà sono ancora qui a scrivere, però sia pure dal buco della chiave sono riuscito a cavarmela. Allorché Rizzoli morì, pensai: senza di lui creperemo tutti. Non sbagliai di molto. Negli ultimi giorni se ne è andato un altro formidabile campione dei Martinitt, Leonardo Del Vecchio, un imprenditore straordinario che era diventato un numero uno già in collegio. Quando ne uscì era pronto per volare, e volò talmente in alto da diventare l'uomo più ricco d'Italia producendo occhiali. Una persona speciale e generosa che ha voluto bene ai suoi dipendenti, rara avis. Approfitto di questa circostanza per tessere l'elogio degli orfanotrofi, benché sia contento di averli evitati.

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