Leggere un libro della scrittrice sudcoreana Han Kang, insignita del Nobel per la letteratura nel 2024, è come aprire un piccolo, compatto componente elettronico tutto non è che precisione, simmetria e essenzialità. L’esperienza gratifica tanto il gusto estetico che il senso della funzionalità e dell’efficienza, esattamente come un circuito ben progettato. Chi legge può star certo che non ci sarà dispersione né surriscaldamento, tutto avviene in una perfetta regolazione a temperature, al massimo, tiepide. L’ultima opera pubblicata da Adelphi, nella raffinata traduzione di Lia Iovenitti, Il libro bianco (163 pag., 19 euro) per le prime cinquanta pagine può dare perfino l’impressione, sbagliata, che con questo testo perlopiù scritto in una residenza a Varsavia, la città rasa al suolo “come esempio” dalla ferocia hitleriana perché aveva osato resistergli, e uscito originariamente nel 2016,
Han Kang abbia provato l’esercizio di stile, lo “studio” distillando al massimo la sua arte. Nelle tre parti intitolate “Io”, “Lei” e “Tutto il bianco”, si succedono capitoli relativamente brevi che a volte si concentrano in aforismi o strofe. La magia del libro è quel che accade andando avanti, come ogni lettore serio dovrebbe fare soprattutto con le opere che sembrano ostinatamente sfuggirgli, quando finalmente in uno di questi paragrafi, più che capitoli, quella che sembrava una macchina perfetta ma senz’anima prende vita, e lo fa nel modo più sconcertante e azzardato. Non che Han Kang non avesse messo le carte in tavola fin da subito: dietro il pretesto di “scrivere del bianco”, e di tutte le cose bianche: fasce per neonati, sale, neve, uccelli bianchi, sudario, ecc. presto si introduce il tema di una sorellina nata prematura e morta dopo poche ore, cui la madre, in una situazione d’emergenza, cuce un camicino in cui la avvolge e riesce solo a dirle: «Ti prego, non morire». Si stabilisce così una prima verità: l’autrice, dichiara, è al mondo perché l’altra è morta. Se quella fosse sopravvissuta, la madre non avrebbe avuto lei. Han Kang ci dice anche che «nella mia lingua materna esistono due aggettivi per dire bianco: hayan e huin.
A differenza di hayan, che indica semplicemente il bianco puro e intatto dello zucchero filato, huin evoca un desolato intreccio di vita e di morte. Quello che volevo scrivere io era un libro huin». Da quel bianco nasce per associazione di purezza, di prima luce (ma anche percettiva, “il camicino bianco”), il «ricordo della prima figlia avuta da mia madre». I capitoli o paragrafi, intrecciando anche l’esperienza del soggiorno a Varsavia con i suoi muri delle fucilazioni, i suoi palazzi interamente ricostruiti dalle macerie in fedele riproduzione di quelli originali (i primi nati), ruotano tutti attorno a quell’evento cardinale, anche quando sembrano volersene sottrarre. C’è il ricordo di un uomo «di mezza età che diceva di voler rivedere il suo amore di gioventù il giorno in cui i suoi capelli fossero diventati bianchi come piume d’uccello», «quando non sarebbe rimasto più tempo per desiderarsi», e allora dopo l’incontro «non sarebbe rimasto altro che una separazione resa definitiva dalla perdita del corpo».
C’è il ricordo di un cane che l’autrice aveva da bambina, ma di cui non ha alcuna memoria se non del giorno della morte, o meglio, dell’ultimo giorno di vita. C’è un elogio del silenzio: «Alla fine di una lunga giornata, è necessario un momento di silenzio. Un momento per stendere le mani irrigidite verso il fioco tepore del silenzio, senza pensarci, come davanti a una stufa accesa». C’è una donna sola che, a mezzanotte, siede alla scrivania «perfettamente sgombra e in ordine» e, in quella quiete, appare a se stessa come «una persona che non è mai stata annientata. Come se non ci fossero mai stati momenti in cui l’unico conforto era sapere che l’eternità non ci appartiene».
E infine ci si imbatte in una frase rivelatrice che fornisce non diciamo la chiave (questo non è un libro cifrato, al contrario) ma la “fede” (non nel senso confessionale) di Han Kang: il fiato “bianco” è la prova che siamo vivi, ma ci sono cose (nel senso più ampio della parola) che hanno valore e dignità proprio perché non sono mai state vive come noi. Hanno la dignità del non essere, del non aver potuto o voluto esistere, come quella sorellina che ebbe solo il tempo, senza capirli, di ascoltare i suoni della frase materna: «Ti prego, non morire», prima di farlo.
Han Kang si muove dentro questo «gigantesco, inafferrabile maedeup», il nodo ornamentale della tradizione coreana, dove la vita è indebitata alla morte, la vita onora la morte, e finalmente la vita concede alla morte la sua dignità, e al non essere la sua bellezza e il suo valore. Non c’è da vergognarsi di essere vivi, scrive l’autrice, ma l’affermazione, alla fine della lettura, suona come la premessa alla vera conclusione: ciò che è morto o che non è mai esistito non ha perso qualcosa né è mancante di qualcosa. Nemmeno alla morte appartiene la vergogna.