Con Roma mia, non morirò più (La Nave di Teseo, pp. 384, euro 22) Aurelio Picca costruisce un romanzo che attraversa la città, riportandone sulla pagina una geografia personale fatta di odori, incontri, ricordi e cartoline sospese nel tempo. «Roma l’ho impressa su ogni centimetro del corpo», scrive Picca e la narrazione principia con la sua infanzia, seguita da una serie di momenti che conservano intatta la forza sensoriale: la via Appia degli anni Sessanta, i ruderi dell’Acquedotto, il tunnel del Quadraro, i pescatori del Tevere, l’interno del Bambino Gesù con le «reticelle ai quattro lati del lettino» e là fuori, il giardino di palme, promessa di vita. Sono episodi autonomi rievocati con precisione che non ambiscono a costruire una memoria ordinata, frammenti di ricordi attraverso i quali Picca ci travolge con l’eros, lo scherno e le lacrime della sua prosa. In parallelo, ecco la Roma contemporanea, osservata nei dettagli minimi: i muri delle catacombe invasi dalla vegetazione, la segnaletica «sradicata e gettata in mezzo alla boscaglia», i forasacchi che «ti restano sul palmo della mano come tanti missili».
La città vissuta di notte - al fianco dei paramedici, a bordo delle gazzelle dei Carabinieri e seguendo gli interventi dei Vigili del Fuoco – non ha nulla di pittoresco: è la metropoli che resiste quando il traffico si spegne e corre via lungo i finestrini, consegnandoci un’umanità stremata, fra pensionati, ladruncoli e transessuali. Picca lavora il testo con tagli netti, cambi di registro improvvisi, accensioni improvvise del lessico, imprimendo sulla sua pagina una città che cambia, si sfibra e si espande, a tratti marcescente ma sempre viva. L’autore attraversa tutta l’Urbe, dalla luce di Anzio alla bellezza di Nettuno, annotando gli amori infranti sul Gianicolo, lasciando affiorare una galleria di figure che contribuiscono a delineare la città nel tempo: Amelia Rosselli, «una specie di ossuto uccello senza ali»; Mario Schifano, «puma timido e sensuale» che camminava sulle tele; Pizzi Cannella con la sua faccia «da ladro di biciclette, fornaio, tossico»; il fascino di Margherita Buy «che sta tutto in un perenne tremore» e la risata fresca di Sabrina Ferilli. Ritratti che toccano il cuore, come quello di Alberto Arbasino, «l’Andy Warhol della letteratura, un eccentrico con i connotati borghesi», con in tasca un fazzoletto bianco di cotone. E poi, Valentino Zeichen che ha vissuto senza complessi da poeta povero e il pugile Nino Benvenuti, l’amico esule, perché «tu ci fai ricordare di quando eravamo più belli, giovani, poveri». E ancora, le camicie da rockstar di Bernardo Bertolucci, «il perfetto seduttore» e Franco Califano «un ficaccio fedele alle amicizie e molto meno alle donne» e Gigi Proietti che «incarnava il pischello, il malandrino, il paraculo e il bonaccione». Picca coglie «i borgatari cannibali» che Pier Paolo Pasolini rese immortali e il ricordo stesso dell’intellettuale, colto nelle sue passioni, puro omaggio alla vita. Roma è ovunque nelle fiction ma viene raccontata fra incanto e nostalgia, senza mai scalfirne la superficie; al contrario, Picca scrive un libro di frammenti che lavora per stratificazioni linguistiche e osservazioni acute, cogliendone il dna immutato: la ferocia e il cinismo atavico.
La sua Roma è un insieme di posture e sensazioni che si trasmettono al corpo, «una città di ombre rosa, angoli zuppi di piscio», strade per mendicanti e ristoranti gourmet, in un libro che avanza per giustapposizioni, rinunciando alla struttura narrativa lineare; una scelta necessaria che ricorda la prosa rapsodica e folgorante di Arbasino in Fratelli d’Italia, una frammentazione che riflette l’esperienza concreta della città, in cui passato e presente si sovrappongono senza requie, fra violenza e vita, sesso e morte, divorando tutto con un sorriso sornione. «Roma è sempre troppa e troppo poca. Domani è già un’altra», riflette l’autore che con una nota social ha rivelato: Roma mia, non morirò è «un libraccio lungo 25 anni» con cui «conclude senza volerlo una trilogia su Roma iniziata con Arsenale di Roma distrutta (2018) e Il più grande criminale di Roma è stato amico mio (2020)». Roma «l’Eterna, l’Infame, la Stupefacente, la Disprezzabile, la Mamma, la Fica, la Corrotta, la Criminale». Roma ladrona che ami o detesti, Roma che non basterebbe una vita intera per conoscerla tutta e che Picca sembra essersi tatuata addosso. Ogni centimetro, ogni strada, ogni volto, pelle sulla pelle. E così sia.




