L a notizia è che torna in libreria Fratelli d’Italia di Alberto Arbasino nella sua prima edizione, quella di Feltrinelli del 1963 (a cura di Giovanni Agosti, Feltrinelli, p. 638, € 28). Per chi scrive invece la notizia è la mole del libro, pur sempre ragguardevole, ma che conta meno della metà delle 1371 pagine dell’ultima versione, che lo scrittore rivide e limò a più riprese in una genesi tormentata durata tutta la vita. La vicenda è nota: un gruppo di intellettuali poco engagé e molto mondani parte per un on the road che dovrebbe condurli nell’Europa orientale, invece si trovano a girare l’Italia in lungo e in largo. Sempre nei posti giusti e con le persone giuste: Capri, Napoli, Roma, Mantova, Spoleto.
A tratti lungo la neonata autostrada del sole, in pieno boom economico ma prima del ’68, divertendosi molto tuttavia discutendo sui massimi sistemi, tra avventure erotiche rigorosamente lgbt prima che andassero di moda, cene blasonate e appuntamenti culturali di primo piano, infine, andando a farsi male in quel di Londra. Tra i protagonisti meritano di essere ricordati il compositore tedesco, la bella irraggiungibile, il giovane Antonio – alter ego di Arbasino – l’intellettuale francese e l’Elefante – proprio così – personaggio secondario, un po’ meno colto degli altri, che del romanzo-saggio è il narratore in prima persona, un po’ come accade per Nick Carraway nel Grande Gatsby di Fitzgerald.
Non vogliamo dire che Arbasino è stato il nostro Fitzgerald, che in parte sarebbe una boutade e per altro verso una limitazione, poiché il libro è più di un romanzo, altro da un saggio, in un guazzabuglio di trovate linguistiche che farebbero invidia a qualunque romanziere in erba per una narrazione che a tratti sembra un flusso di coscienza, altrove una degenerazione verso il pittoresco, insomma: di Arbasino ce n’è uno solo e siamo onorati di averlo avuto. E' stato un grandissimo scrittore e Fratelli d’Italia è giustamente considerato il suo capolavoro. Diciamo che non darei un braccio per scrivere come lui, ma quasi, e questo anche se Fratelli d’Italia mi annoia: lo trovo frivolo e debordante. Le conversazioni colte dei protagonisti occupano troppe pagine e danno l’idea di essere un inutile sfoggio di cultura e di citazionismo letterario, perché risultano slegate dalla trama e appesantiscono il libro. Il sospetto è che se lo avesse tagliato un po’, ne avrebbe guadagnato.
Anche ai tempi suoi fu accolto con freddezza. Evitando il giudizio eccessivamente tagliente di Moravia, che lo attaccò sul Corriere della Sera definendo la sua prosa di «perfezione priva di partecipazione personale», dobbiamo ammettere che gli sberleffi della critica non avevano sbagliato di troppo la mira: «pasticheur di talento senza scrupoli»; «delizioso mistificatore»; «sottoprodotto barocco». La prima edizione infatti non andò benissimo, qualcuno obietterà che l’Italia era ancora troppo bigotta per capirlo, ma intanto questo romanzo dell’Italia dei circoletti intellettuali dalla posa marxista, ma sempre ben pasciuti sulle terrazze romane, “collusi” con l’alta società e la politica - gli stessi che tuttora ci ammorbano con pretese di superiorità culturale e morale- traccia un ritratto impietoso, con il tocco leggero che solo i grandi sanno avere. Non riveleremo il finale amaro, un po’ come nelle commedie all’italiana di quel tempo, quindi ci limiteremo a un esercizio di stile solo all’apparenza meno interessante, citando qualche guaio che gli procurò il libro, la cui pubblicazione fu in forse per mesi.
Giorgio Bassani arrivò a minacciare di abbandonare la rivista Paragone, se lo scrittore non fosse stato estromesso. Per non dire degli attriti con l’alta società: Desideria, il personaggio femminile di spicco, è modellato sulla principessa Laudomia Hercolani, donna bellissima e molto intelligente, scenografa di Luchino Visconti nonché amica di Arbasino, che non la prese bene rivedendosi nel suo manoscritto: «era indignata oltre ogni dire e parlava di far bastonare Arbasino e di cacciarlo in galera», scrive Moravia.
Le cose non andarono così, fortunatamente, i due rimasero in buoni rapporti e Arbasino non è diventato il nostro Truman Capote. Ma tutto ciò lo fece soffrire, tanto che se ne andò all’estero per qualche tempo. Il resto è storia. Il bel mondo riflesso nello specchio bugiardo dell’intellettuale di poco conto; il sole a picco su strade nuove di pacca, senza ponti che cadono divorando vite; l’amore omosessuale con la sua anarchia liberatoria, ma in giacca e cravatta; le giornate che non finiscono mai, perché c’è troppo da fare e da vedere. Questo, il mondo nel romanzo, che è poi il mondo in cui Alberto Arbasino si muoveva leggero, raccontato con dovizia di particolari in una bella postfazione del curatore. Un’Italia in bianco e nero che non c’è più e che rimpiangiamo, perché ancora nutriva qualche speranza e i suoi scrittori, in posa oppure no, erano di un livello oggi inimmaginabile. $ tutto qui dentro, tra una digressione, uno sberleffo, spettacoli a teatro, e poi l’opera, l’arte, la vita e la morte.