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I Canti maledetti, inno alla bellezza dell'orrido

L’opera di Ducasse è una sconveniente ode a tutto ciò che non si osa pensare. Scorrettissima e, per questo, da amare
di Claudia Gualdana giovedì 18 dicembre 2025

4' di lettura

Se tavolta vale la pena di iniziare dalla fine, con il conte di Lautréamont rinvenuto privo di vita in una stanza d’albergo, il 24 novembre 1870, durante il tragico assedio di Parigi della guerra franco-prussiana. Aveva solo 24 anni, ma l’ipotesi di suicidio fu scartata per virare verso una più rassicurante diagnosi di tifo o tubercolosi, due piaghe non infrequenti nelle città assediate, con le conseguenze che questo comporta. L’atto di morte recita, banalmente, «deceduto, senza altre informazioni». Una vicenda di immane squallore, con un giovane morto solo, senza una causa apparente, in una camera presa a pigione, un po’ come se il mostro che aveva creato lo avesse divorato dall’interno precipitandolo agli inferi, a un mese esatto dalla vigilia di Natale.

La menzione del Natale imminente non è casuale, prima di tutto perché recensire nell’Avvento I canti di Maldoror di Lautréamont, al secolo Isidore Lucien Ducasse, nato nel 1846 a Montevideo da genitori francesi, suona blasfemo, anzi un po’ lo è. Ma vorremmo innanzitutto dire che questa nuova traduzione (a cura di Luca Salvatore, Einaudi, p. 684, € 36) era un’occasione da non perdere. Un po’ perché è un classico della poesia dei cosiddetti maledetti, un po’ perché neanche il marchese De Sade aveva osato tanto; infine perché non si può leggere nulla di altrettanto eticamente inaccettabile, visibilmente malato e crudele: un’ode a tutto ciò che neanche si osa pensare, figuriamoci proclamarlo nella forma cristallina della letteratura. Un bel calcio al politicamente corretto, e questo per chi scrive è la vera novità: Ducasse è sconveniente, dunque amiamolo.

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Ciò detto, i canti sono un paradosso già per le loro caratteristiche di stile: niente metrica, trattasi di versi in prosa, un delirio ininterrotto dalla prima all’ultima riga, in cui il protagonista – che curiosamente non è mai stato accostato allo Zarathustra di Nietzsche, eppure forte è il sospetto che Ducasse lo avesse letto e interpretato a modo suo – fa tutto ciò che è illecito, affermando la sua ribellione a Dio. Egli si cala nell’inferno dantesco, ma con l’autocompiacimento di chi la dannazione la rivendica con orgoglio. Citiamo solo qualche stralcio, con gli esseri umani qualificati come «bestie feroci», «miserabili caricature del bello, che prendono sul serio il risibile ragliare delle loro anime sovranamente spregevoli»; il suo autoritratto: «bello come i due lunghi filamenti tentacoliformi di un insetto, o piuttosto come una inumazione precipitosa; bello come la legge della ricostituzione degli organi mutilati e, soprattutto, come un liquido eminentemente putrescibile».

C’è poi la misoginia, con conseguente esaltazione della pederastia: «Io disprezzo le donne! e gli ermafroditi! Mi si confanno esseri a me affini, sulla fronte dei quali la nobiltà umana sia impressa a caratteri più netti, indelebili! Siete certi che quelle che han fluenti chiome, siano della mia stessa pasta? Ne dubito». Ce n’è anche e soprattutto per il Padreterno, e qui ci autocensuriamo per carità di patria e della nostra stessa anima. Quest’inno alla macabra bellezza dell’orrore fu rifiutato dagli editori – gli stessi di Baudelaire, Zola e Hugo - che temevano la scure della censura. Ducasse lo pubblicò a sue spese, con l’aiuto del padre e di un di lui amico banchiere. E questo nonostante Verlaine e Baudelaire, i maledetti appunto, fossero venerati. Come a dire che c’è un limite invalicabile anche nella celebrazione del torbido: un limite che Ducasse aveva fatalmente superato.

Il sostantivo che ricorre più di frequente, nei commenti di chi ha avuto l’ardire di leggerlo dall’inizio alla fine, è “vertigine”: una sensazione di mancamento, come se ogni certezza spazio-temporale, morale, metafisica perfino, fosse sospesa in un’immaginifica celebrazione dell’orrore. Anche Maurice Blanchot, nella prefazione, ricorre al senso di vertigine, «in seno a una coscienza sarcastica», che è poi l’essenza di ogni nichilismo. I canti tratteggiano Hieronymus Bosch in prosa, infatti c’è del surrealismo in Lautréamont. Ma questo non l’hai mai saputo; per la fatalità della vita, o della morte se preferite. Ma lui voleva, semplicemente, cantare il male, come spiega candido in una lettera agli editori: «Ho cantato il male come hanno fatto (...) Milton, de Musset, Baudelaire. Naturalmente ho esagerato un po’ il diapason per fare del nuovo nel senso di quella letteratura sublime che canta la disperazione soltanto per opprimere il lettore e fargli desiderare il bene come rimedio».

È lecito mettere in dubbio la sua sincerità, e ritenere che invece stesse emulando, sebbene con talento, i suoi ispiratori. Furono André Breton e Louis Aragon a farlo proprio, eleggendolo precursore del surrealismo. Nel 1920 Man Ray gli intitola un’opera, L’Enigme d’Isidore Ducasse, la foto di una macchina da cucire avvolta da una coperta legata con lo spago. Una povera cosa, un’ode al bello invece per Lautréamont: «Bello come l’incontro casuale di una macchina da cucire con un ombrello su un tavolo da dissezione».

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