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Poeti, giuristi, medici e cronisti: l'esercito perduto di Mishima

Dell’Orco riapre il dossier più misterioso della storia giapponese: ricostruire l’epopea della milizia che circondò lo scrittore e si dissolse dopo la sua morte
di Claudio Siniscalchi sabato 20 dicembre 2025

3' di lettura

Recentemente la figura dello scrittore giapponese Yukio Mishima è stata accostata a quella di Pier Paolo Pasolini. Ricorda Jon Halliday che l’edizione giapponese del suo libro-intervista a Pasolini uscì corredata da una fascetta contenente una domanda: «Pasolini era il Mishima italiano, vissuto nella frattura tra il mondo del mito e la rivoluzione?». Halliday suggerisce i punti di contatto tra i due: entrambi omosessuali, assillati dalla vigoria del corpo, convinti della irrecuperabilità del passato. L’affermazione «erano stati uomini di sinistra spostatisi a destra» ieri appariva sbalorditiva, oggi molto meno. L’accostamento dunque non è errato. Ma ne esiste un altro più attinente: Gabriele D’Annunzio. Per una semplice ragione: l’«estetica armata». Il Vate le armi le impugnò contro i nemici. Mishima contro di sé, il 25 novembre 1970, sbudellandosi con una spada affilata.

Ricorre al seppuku (taglio del ventre), come i samurai, per espiare una colpa. Perché? Il Giappone del dopoguerra ai suoi occhi si era disumanizzato, secolarizzato, svirilizzato. Non più Impero, Nazione, Bellezza, Sacro, Disciplina, Onore, Tradizione. La perdita della vita, dopo la perdita dell’innocenza, gli apparve l’unico gesto possibile per riscattare un’esistenza priva di senso. Come scrive Daniele Dell’Orco nell’introduzione a L’esercito di Mishima. Storia segreta della Tate no Kai (Idrovolante, pagine 400, euro 20), l’atto violento con il quale chiude teatralmente la propria avventura terrena (e in questo somiglia davvero a Pasolini, essendo D’Annunzio morto di vecchiaia nella dimora monumento), rappresenta «la chiave di volta che unisce l’estetica all’azione, la scrittura al sangue, la parola alla lama».
Così come il Vate raccolse intorno a sé a Fiume frotte di «legionari» di ogni età, provenienza, orientamento e temperamento, Mishima mette in piedi un proprio «corpo militante». Lui piccolino, mingherlino e riformato alla visita militare, con ferrea disciplina ha levigato, scolpendoli, muscoli d’acciaio. Corazza armoniosa della trasformazione in Poeta Condottiero. Attratti dal suo carisma alcuni lo seguono. È, appunto l’«esercito di Mishima»: il Tate no Kai (Società dello Scudo).

Scomparso Mishima dei componenti di quell’esercito privato s’è persa la memoria. Complici loro stessi dell’oblio. Si sono trasformati nel corso del tempo in medici, avvocati, giornalisti, insegnanti. C’è anche chi ha fatto carriera. Sul loro passato hanno preferito far calare il silenzio. Dell’Orco li ha riportati in vita dopo una lunga investigazione condotta in Giappone. Ha consultato testimoni dell’epoca, amici, studiosi. Ha visitato luoghi chiave di quell’esperienza, dai templi ai campi d’addestramento. Il Giappone della guerra persa, decapitato dell’Impero e dell’Imperatore (vivo, ridotto però a comune mortale al quale hanno strappato l’aura divina), ammutolito dalla sofferenza mescolata alla vergogna, ferito a morte dall’arma micidiale, impegnato a dimenticare il passato, negli anni Sessanta vede affiorare un desiderio generazionale di rompere le catene del «discorso ufficiale». Mishima se ne fa interprete supremo, ponendosi al comando di una legione di «irregolari» consapevoli di sfidare il Destino. I protagonisti di L’esercito di Mishima sono loro, sopravvissuti all’evento del 1970. La storia di questi sopravvissuti può apparire un inutile salto indietro nel tempo. Ma nella «ricostruzione della memoria» non ci sono viaggi inutili. Italia e Giappone, uscite sconfitte e umiliate dal conflitto mondiale, nel dopoguerra beneficiano del «miracolo economico».

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La modernità corre veloce. Trasforma tutto. Divora tutto. La novità diventa divinità. Il consumo uccide il pensiero, la terra, le relazioni umane, il divino. Mishima, non meno di Pasolini, odia il nuovo. Tutto ciò che è nuovo conduce l’individuo alla dannazione. Ne appanna l’intelletto. Ne mangia l’anima. Resta solo la poesia a frapporsi alla desertificazione di menti, corpi, città. Ma la poesia da sola non basta. Occorre sacrificare il bene supremo: la vita. Dissipandola. Bruciandola. Assimilandola all’opera d’arte da scagliare contro il silenzio assordante dell’omologazione. Anche la Germania, come Italia e Giappone, ha perso la guerra. È stata sventrata, amputata, tagliata in due. E in cambio ha anch’essa vissuto il «miracolo economico» (almeno ad Occidente). Non ha avuto né Pasolini né Mishima, ma Rainer Werner Fassbinder. Omosessuale, insofferente, incontinente, bulimico di vita e lavoro. Ha realizzato un doppio «film-testamento»: Il matrimonio di Maria Braun (1979) e Querelle de Brest (1982). Nel primo, generazionale, ha messo in scena i fantasmi del dopoguerra. Nel secondo, individuale, i propri fantasmi dissolutivi. Neppure quarantenne è morto per l’eccesso di vivere. Le idolatrie della modernità gli sembravano orribili. Non molto diversamente da Yukio e Pier Paolo.

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