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Eni, Enel, Finmeccanica, Fiat: Francia, Germania e Usa pronte a spartirsi l'Italia

Le deroghe al rigore valgono per Parigi ma non per noi. Il piano è chiaro: impoverirci per soffiarci i nostri gioielli
di Giulio Bucchi domenica 17 febbraio 2013

4' di lettura

  di Giuliano Zulin La scorsa settimana Mario Monti ha festeggiato: il nuovo bilancio della Ue costerà all’anno 700 milioni in meno all’Italia. Un successo? Anche no, perché il Belpaese rimane contribuente netto in Europa. Tra contributi versati e soldi ricevuti, ci fregano ancora 3,8 miliardi all’anno, che moltiplicati per sei anni, fanno 26,6 miliardi. Quattrini che potrebbero servire per eliminare tre quarti di Irap in un colpo solo. Invece no, per rispettare i compiti fissati dall’Europa germanocentrica, ci toccheranno manovre lacrime e sangue per altri vent’anni: è il fiscal compact, ovvero quel meccanismo diabolico che il governo italiano ha digerito, che ci obbliga a tagliare un pezzo di debito (quasi 2mila miliardi di euro) fino a portarlo al 60% in rapporto al Pil. C’è un problema però: se il Pil,  ovvero l’economia reale, continua a regredire, sarà sempre più difficile ripagare il rosso dello Stato. Per cui le manovre  saranno  più pesanti. Fino a che punto? Speriamo non come in Grecia, dove sono saltati tutti i riferimenti «occidentali» su occupazione, produzione e consumi. Atene non è più Europa, ma la signora Merkel - e il suo amico Mario Monti - preferiscono non parlarne. Tanto, pensano i tedeschi, c’è il Professore bocconiano che ha incassato 23 miliardi con l’Imu, soldi che hanno permesso al Belpaese di rinforzare il fondo Salva-Stati, ripagare i buchi delle banche teutoniche e francesi con quelle greche, spagnole e irlandesi.  Che problema c’è, pensano fuori confine: c’è Monti in Italia che tiene sotto scacco le imprese e i consumatori. Jens Weidmann, presidente della Bundesbank, sostiene che un super euro sia un bene. E guai a metterlo in discussione. Il ministro uscente dell’Economia, Vittorio Grilli, non vuole disturbare il manovratore tedesco: «Non c’è una guerra valutaria, - spiegava ieri a margine del G20 di Mosca - gran parte di questi cambiamenti dei valori delle valute   sono dovuti   a cambiamenti di impostazione macroeconomica nazionale». Eppure il Giappone sta svalutando il suo yen per esportare di più e provare a uscire da una depressione che dura da vent’anni nel Sol Levante. Con l’ok degli Stati Uniti e buona pace dei tedeschi, che l’anno scorso hanno esportato prodotti per 1100 miliardi (+3,4%). I giapponesi stampano yen a nastro e con i soldi «nuovi» comprano euro, rafforzandolo ulteriormente. Così come ha fatto per mesi la Svizzera, con l’obiettivo di non far male all’export elvetico. È una guerra, nonostante quello che dice Grilli. Però Mario Draghi non può farci niente, perché la stabilizzazione valutaria non rientra nei compiti della Bce. E così le nostre esportazioni faranno sempre più fatica a essere competitive, tanto che già a dicembre si è registrato un calo. Mandando così in crisi l’unica voce positiva della nostra  economia.  Solo la Francia ha alzato la voce: non riusciamo a starci dentro. I conti di Parigi non sono proprio buoni. Ma il capo del Fondo Monetario è francese, e soprattutto la Merkel non vuole rogne fino al 30 settembre, giorno delle sue elezioni. E così per monsieur Hollande l’Unione Europea chiuderà un occhio sul rientro del rapporto deficit/Pil. Così la Francia può tirare avanti, mentre per la Spagna e per l’Italia non si esce dai comandamenti «riforme» e «rigore». Parole giuste, ma male applicate. Se l’obiettivo fosse: fisco, lavoro, pensioni e debiti uguali per tutti i contribuenti europei, allora sì che l’Europa sarebbe unita. Invece c’è solo la libertà di fregarsi l’un con l’altro, approfittando di chi si trova in difficoltà. Ed ecco che le inchieste e la crisi hanno trasformato l’Italia, con l’ok del Professore, in un mega discount. Ci sono i francesi, che dopo essersi presi Edison, Bnl e Parmalat, ora vogliono sottrarre gli appalti di Finmeccanica in India e di Saipem in Algeria. Oltralpe puntano anche ad Alitalia, che non è più in grado di volare da sola. Ma i veri pezzi grossi della svendita sono Telecom Italia, Enel ed Eni. Sulla compagnia telefonica non è un mistero l’interesse dei tedeschi di  Deutsche Telekom, così come quello dei soliti tedeschi di Eon per Enel, ancora molto indebitata dopo l’acquisto di Endesa. E poi c’è l’Eni: l’obiettivo dei fondi, stavolta anglosassoni, è sempre lo spezzatino. Un po’ per fare soldi, un po’ per eliminare un gruppo che è tornato a farsi rispettare nel mondo. E vogliamo parlare delle banche? Una volta al mese si vocifera dell’appetito germanico per Unicredit. Così come quello francese per Mps. La Fiat invece interessa ad Obama, nel senso che il presidente ha piacere che Marchionne se la compri tutta. Il che significa un inevitabile spostamento del quartier generale in America. D’altronde in Italia è sempre più un’impresa fare impresa. La crisi è pesante, le tasse e la burocrazia pure. Uno straniero che arriva qua si prende  tutto il buono che c’è e poi chiude. Generando disoccupati e recessione. Se Sarkozy e la Merkel ridevano del Cav, ora c’è chi ride di noi. Grazie a Monti.  

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