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Carlo Vichi, straziante aneddoto sulla morte di mister Mivar: "Al lavoro fino all'ultimo, ma poi...", come se ne è andato

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Nino Sunseri
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Una storia italiana quella di Carlo Vichi, fondatore della Mivar, scomparso ieri a 98 anni. Una storia tutta italiana perché fatta di tenacia, di fantasia e di lavoro. Tanto lavoro. Senza conoscere sabato, senza domenica, senza vacanza. E purtroppo  senza capitali per cui all'inizio degli anni Duemila sotto l'offensiva dei televisori costruiti in Giappone o in Corea, l'azienda di Carlo Vichi deve arrendersi. Schermi piatti, tecnologia sempre più sofisticata, innovazione spinta impongono investimenti giganteschi. Un impegno che solo colossi multinazionali con milioni di pezzi venduti ogni anno possono sostenere. Non certo un genio solitario che stava in officina con gli operai, mangiava alla loro mensa, si occupava della salute dei figli. La fabbrica di Carlo Vichi chiude nel 2013. Il fondatore ha più di 90 anni e ha lavorato fino alla fine. Propone l'ultima invenzione prima di abbassare la «claire» (chiamarla saracinesca ad Abbiategrasso non usa). Offre la sua fabbrica in affitto gratuito a qualunque produttore «serio» desideri costruire televisori in Italia. «Perché voglio rivedere il sorriso sul viso della mia gente» dice. L'impianto che mette a disposizione non è mai stato utilizzato: due piani, 120 mila metri quadri totali, parcheggi, grande mensa, presidio medico.

 

 

 

 

 



ARRIVA LA CRISI - Utilizzata pochissimo perché la crisi era arrivata prima rendendo inutile il trasferimento dal vecchio impianto. Eppure per tenerla aperta Vichi aveva speso più di cento milioni in dieci anni. Sperava ancora di vederla marciare. Certo un modo di fare impresa d'altri tempi. Ma anche Carlo Vichi era un uomo d'altri tempi. Non voleva i sindacati in fabbrica e non faceva mistero delle simpatie che nutriva verso il Ventennio. Non a caso fra i pochi segni ufficiali di cordoglio arrivati ieri ci sono quello di Carlo Fidanza (FdI) e Silvio Scurati della Lega. Eppure in fabbrica era amato e rispettato. L'ultimo giorno di attività le operaie sfilarono una ad una. Con il pennarello scrissero sul retro di un televisore il loro nome. Volevano fare una sorpresa al signor Carlo. «Questo è per lei, ci sono le firme di tutti», gli dicono consegnandolo quell'ultimo esemplare prodotto dalla storica e unica fabbrica italiana di apparecchi televisivi (e anche radiofonici), fondata nel 1945. Carlo Vichi, già novantenne, si commuove. «Ma ci sono anche i nomi degli uomini. Voglio solo i vostri!», esclama scherzando. Perché qui, in via Dante 45, Abbiategrasso, erano loro, le donne, a costruire - non assemblare - pezzo per pezzo i televisori. Quelli col tubo catodico in bianco e nero e la scheda. Quando la fabbrica nasce si chiama ancora Var (Vichi apparecchi radio). Il marchio commerciale è Lesa. Ma Vichi impiega poco a capire che in Italia nessuno vive senza tv. L'azienda si trasforma in Mivar (Milano Vichi apparecchi Radio) concentrandosi sui televisori. Il fatturato raggiunge presto il miliardo di lire. Il successo si basava non tanto sull'innovazione quanto sull'affidabilità, sui prezzi concorrenziali, sul passaparola che consentiva di ridurre al minimo gli investimenti pubblicitari. Negli anni '70, tocca una quota di mercato del 12% seconda solo a Phillips, che venne scavalcata negli anni '90, quando Vichi diede il via alla costruzione di un nuovo stabilimento ad Abbiategrasso. È del 1999 il record di produzione, 950mila apparecchi per una quota salita al 35%. Dura poco. Nel 2001 la prima cassa integrazione. Al funerale, aveva lasciato detto «non dovranno esserci le autorità». La bara dovrà essere al centro dello stabilimento, «poi ci sarà una bella festa».


 

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