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Emanuele Salamone (Maroni&Associati): "Così pubblico e privato uniscono le forze"

 Emanuele Salamone

Luigi Merano
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I partenariati pubblico-privato (PPP) hanno ricevuto notevole attenzione a livello europeo già 50 anni fa: un vero e proprio sviluppo si è avuto negli ultimi trent'anni nei settori delle infrastrutture e dei servizi pubblici come trasporti, acquedotti, fognature, energia, protezione dell'ambiente, salute pubblica e altro. Regno Unito, Portogallo, Spagna e altri Paesi industrializzati, non solo europei, hanno assistito a una crescita costante del numero di progetti. E anche molti Paesi in via di sviluppo li utilizzano per costruire e gestire le proprie infrastrutture. «Alcuni», spiega a Libero Emanuele Salamone, senior partner Maroni&Associati, «suggeriscono che il fenomeno PPP sia diventato una nuova forma di governance visto che molti governi in tutto il mondo stanno diventando sempre di più dipendenti dai players privati per l'attuazione di politiche pubbliche. In realtà i PPP implicano lo sviluppo congiunto e la condivisione del rischio tra i partner, non si tratta ormai più di un semplice metodo di lavoro, ma un vero e proprio meccanismo di governance».

Come si può ottimizzare questa nuova forma di governance?
«Forse la strada giusta da percorrere è quella basata su due teorie convergenti, quella dei costi di transazione e quella dei diritti di proprietà, visto che i problemi di incentivazione causati da asimmetria informativa tra pubblico e privato non possono essere risolti tout court. Il punto d'arrivo per gli stakeholder dei PPP, nell'intento di bilanciare i benefici delle parti interessate, istituzionale e privata, potrebbe essere individuato nel concetto di "guadagno istituzionale" la cui legittimità è importante quanto la remunerazione dell'efficienza generalmente portata dal partner privato».

Come si è originato il concetto Emanuele Salamone di PPP?
"Facciamo un passo indietro, al 1992, al culmine del periodo di recessione provocato dalla bolla speculativa immobiliare degli anni '80. Il precursore del PPP è stata la PFI (Private Finance Initiative), avviata quell'anno dal Governo conservatore della Gran Bretagna. Ma le iniziative erano in parte ostacolate da chi temeva che l'etica del servizio pubblico potesse per essere minata dal coinvolgimento del settore privato».

Tornando ai giorni nostri, come si potrebbe proseguire?
«Il superamento dei dubbi sulla correttezza dei procedimenti di collaborazione pubblico-privato, che ha permesso la diffusione dei PPP, non ha però ancora portato a identificare in modo univoco le caratteristiche che i PPP dovrebbero avere. In primo luogo è richiesta una cooperazione duratura, per alcuni economisti perlomeno di 25 o 30 anni: un contratto a breve termine non sarebbe definibile un vero e proprio PPP. In secondo luogo, i settori privati dovrebbero partecipare a buona parte delle fasi di realizzazione, compresa la progettazione, la costruzione, la gestione e la manutenzione».

Chi ne trarrebbe maggiore vantaggio, il pubblico o il privato?
«Queste fasi spesso comportano grandi spese in conto capitale, in genere centinaia di milioni di euro. Pertanto, un contratto a lungo termine consente a entrambi i partner di beneficiare della cooperazione».

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