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L'inflazione cala, il Pil tiene e i gufi restano ancora a bocca asciutta

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Il ministro Giorgetti presenta la Finanziaria

Sandro Iacometti
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Il pil regge, l’inflazione precipita e i titoli di Stato sonnecchiano. Il rischio che il prossimo 17 novembre, data in cui Moody’s dovrà rivedere il suo giudizio sull’Italia, si riveli l’ennesima, cocente delusione per i gufi (dopo quella già rifilata loro da S&P) è altissimo. Qualcuno ci spera ancora, parla di data cerchiata in rosso, di appuntamento fatale per il governo, di Palazzo Chigi in fibrillazione. Ma la realtà è che la maggior parte degli analisti ritiene l’appuntamento poco più di una formalità. Non solo non si sono verificate le variabili negative indicate tempo fa dalla stessa Moody’s come motivi per giustificare un declassamento, ma sul tavolo ora ci sono pure la prudenza (per alcuni anche eccessiva) della manovra, i dati macroeconomici non negativi e la totale assenza di tensioni sui mercati finanziari.

Sull’ultimo fronte basta dare un’occhiata all’andamento dei Btp. Ieri è proseguita la placida discesa del rendimento (4,7%), mentre lo spread è rimasto più o meno stabile a 191 punti. Ma le indicazioni più attese erano quelle affidate ai calcoli dell’Istat, che ieri ha snocciolato sia i dati sull’inflazione sia quelli sul Pil del terzo trimestre. In entrambi i casi, pur essendoci poco da festeggiare, il cammino dell’Italia continua ad essere più vivace di quello del Vecchio continente. L’inflazione è letteralmente crollata dal 5,3% di settembre all'1,8% di ottobre, mettendo a segno una lieve contrazione dello 0,1% sul mese precedente. La Bce c’entra poco. È l’effetto principalmente del forte rallentamento dei prezzi dell’energia e in piccola parte di quelli degli alimentari. Ma è il risultato quello che conta.

EFFETTO BCE
Dove invece Christine Lagarde ci ha messo lo zampino è l’altro capitolo, quello della crescita. Anzi, della non crescita, visto che il Pil nel terzo trimestre è rimasto perfettamente fermo: zero sia rispetto al trimestre precedente sia rispetto allo scorso anno. «La politica monetaria restrittiva delle banche centrali comincia a produrre i suoi effetti», ha commentato Giancarlo Giorgetti. Ma sarebbe sbagliato leggere la notizia in negativo. La crescita acquisita per il 2023 resta dello 0,7%, non lontana dallo 0,8% previsto nel Documento programmatico di bilancio che fa da impalcatura alla manovra.

Come spiega il ministro dell’Economia, «il sistema economico italiano, nonostante tutte le difficoltà, è riuscito a reggere di fronte alla concomitanza di tanti fattori critici». Fattori critici che non pesano solo da noi. Un paio di giorni fa è arrivata la notizia del Pil in flessione sia della Germania sia, a cascata, dell’Austria. Ieri la Francia ha annunciato la brusca frenata della crescita dallo 0,6% del secondo trimestre ad un modesto +0,1%. Mentre il prodotto interno lordo complessivo dell'eurozona, sempre nel terzo trimestre, è calato dello 0,1%, con una crescita dei prezzi al consumo di ottobre che si è ridotta, ma si è attestata ben al di sopra della media italiana, segnando un +2,9%.

È questo lo scenario in cui si innesta la legge di bilancio, appena trasmessa al Senato e su cui ieri Giorgetti si è soffermato più volte nel corso del suo intervento promosso dall’Acri in occasione della Giornata mondiale del risparmio. Il titolare di Via XX Settembre non si è nascosto dietro a un dito. «Vi garantisco», ha spiegato, «che non è stato facile il confronto all’interno dell’esecutivo per scremare le diverse istanze, tutte legittime, che erano stato rappresentate». E il risultato è dovuto al fatto che «si è ritenuto di privilegiare in questa fase gli obiettivi di sostegno al reddito dei ceti meno abbienti, più esposti all’impatto fortissimo di un livello di inflazione che nei decenni scorsi era assolutamente sconosciuto e che ha ridotto la capacità di spesa di tante famiglie».

ERRORI PASSATI
Si è trattato, ha proseguito il ministro dell’Economia, «di scelte dolorose, anche rimediando a gravi errori compiuti in passato che hanno prodotto un carico notevolissimo sulla finanza pubblica». E qui si arriva al capitolo rovente del disavanzo, gonfiato a dismisura negli anni in cui il Patto di Stabilità era sospeso, con oltre 350 miliardi in più di debito pubblico accumulato, e messo a rischio anche negli anni a venire con quel Superbonus che si è dimostrato più devastante delle carni,B vecchie “clausole di salvaguardia” in voga nei governi Monti, Letta e Renzi per far contenta la Commissione europea promettendo automatici aumenti di tasse in caso di deragliamento dei saldi.

In questo caso la trovata di Giuseppe Conte di far ristrutturare «gratuitamente» le case comporterà una stangata di 20 miliardi l’annodi indebitamento da qui al 2027. Praticamente i soldi che sarebbero serviti a rendere strutturale il taglio delle tasse previsto dalla manovra. Ma ora, ha annunciato Giorgetti, riferendosi anche alla reintroduzione del patto di stabilità, «sul debito è suonata la sveglia». Anche perché «più debito significa più spesa per interessi e più spesa per interessi significa meno sostegno a famiglie e imprese. È il nostro punto debole». Di qui la necessità di una manovra light. Che consentirà, se si evita il rischio di una recessione globale, «una progressiva riduzione del disavanzo».

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