Non è nemmeno più una contraddizione logica, è un paradosso temporale. Funziona più o meno così: frotte di “esperti” (qualunque cosa questa categoria-passepartout voglia dire), istituti finanziari, fonti sulla carta (straccia) terze e autorevoli si affannano a vaticinare l’apocalisse economica americana.
Causa principale: ovviamente i dazi del Puzzone Trump, uno che notoriamente non ha mai bazzicato il business e gli affari. Conseguenza principale: la débâcle inflazionistica imminente, sempre in procinto di divorarsi famiglie e consumatori americani. Dopodiché, puntualmente accade che la rovina non si materializza, che l’inflazione non esplode, che anzi il corpaccione economico a stelle e strisce fornisce inequivocabili segnali di ottima salute. Ma è tutto un inganno, certificano subito i (falsi) profeti senza fare un plissé, adesso vi spieghiamo noi. E si ricomincia.
L’ultimo capitolo della saga è cronaca. Una settimana fa esce l’abituale rapporto della Federal Reserve noto come Beige Book. Sentenza cristallina: i dazi che il presidente sta imponendo alla quasi totalità dei partner commerciali del Paese stanno pompando l’inflazione, poiché le aziende sono intrappolate tra l’assorbimento dei costi o il loro trasferimento ai clienti. Notizia di ieri: l’inflazione made in Usa cresce sensibilmente al di sotto delle previsioni, sia per quanto riguarda l’indice generale dei prezzi al consumo sia per quanto riguarda il dato core (quello che esclude i beni più volatili, come i generi alimentari e l’energia), che è passato dal 2,9% su base annua di agosto al 3%. Una stasi, sostanzialmente, altro che i bagliori dell’apocalisse. Da segnalare, per inciso ma non troppo, che nel secondo trimestre il Pil americano è cresciuto del 3,8% e la stima annuale lo proietta al 4%. L’analoga previsione su tutto il 2025 dell’Eurozona, quella fortunata metà d’Occidente amministrata dai dotti in crociata contro i dazi trumpiani, non arriva all’1%. Anche uno studente svogliato della scuola dell’obbligo capirebbe che qualcuno non ce la sta contando giusta, e non è l’Orco col toupè.
COLPO DI CODA
E qui veniamo al paradosso temporale. Il fatto è che, al netto della non esigua schiera dei critici ideologici a priori (quelli che spergiuravano sull’ineluttabile affermazione della “joy” kamaliana, per capirci), i profeti di sventura che volteggiano sulla politica commerciale trumpiana pensano, agiscono, parlano dal Novecento. Precisamente, da quell’ultima porzione di Novecento che doveva coincidere con la fine della Storia (come ci avevano garantito Francis Fukuyama e la frotta di imitatori liberal di gran lunga peggiori dell’originale). Per cui si trattava solamente di adagiarsi sulle magnifiche sorti e progressive garantite dal dispiegarsi benefico della globalizzazione a trazione occidentale. Ma The Donald (e questo è il vero senso ultimo del trumpismo) ha stanato il trucco, ha smascherato il giocattolo contraffatto: la globalizzazione non era affatto a trazione occidentale, anzi era il colpo di coda con cui un altro totalitarismo comunista, più a Oriente e più efficiente, stava vincendo la partita geo-economica. Da qui gli obiettivi di fondo della vituperata politica dei dazi: farla finita con la concorrenza sleale (anzitutto) cinese, ritarare la bilancia commerciale, reinnestare catene produttive interne al tessuto americano. Contando sulla sua formidabile capacità di adattamento, sul suo dinamismo e sugli introiti assicurati dai dazi medesimi. Per ora, l’Orco sta vincendo la partita. La ricaduta della politica daziaria sui prezzi finali al consumatore, ad esempio, è significativamente contenuta dall’alta concorrenza dell’ambiente economico americano: è una lezione di liberismo pragmatico ai teorici in poltrona del dogma liberal-globalista. Intanto, l’incasso dai dazi nel primo semestre ammonta a 113 miliardi di dollari, e l’amministrazione stima di arrivare a fine anno a 267 miliardi. No, la Storia non era finita, e si scrive ancora a Washington.
