La Libia ci insegna come punire gli scafisti. L'editoriale di Maurizio Belpietro
Quella che vedete qui a fianco è la foto di tre scafisti libici. Non so dove l'agenzia Ansa l'abbia scovata. So che questa foto ritrae chi organizzò e condusse la traversata del Mediterraneo di centinaia di profughi che pochi giorni fa finirono in fondo al mare. I tre stringono tra le mani l'immagine di una delle loro vittime: bambini inghiottiti dalle acque mentre erano a bordo di una bagnarola sovraccarica. Ad arrestare e a esporre alla pubblica gogna gli scafisti però non è stata l'Italia, bensì l'incivile e dilaniata Libia. Per capire chi avesse organizzato il viaggio della morte, chi avesse stipato di passeggeri un battello malandato che non era in grado di affrontare il mare, chi in pratica fosse il responsabile dell'omicidio di centinaia di persone, non è servita una perizia disposta dall'autorità giudiziaria né sono state necessarie rogatorie o intercettazioni. A scovare i colpevoli ci ha pensato la gente del posto, indignata più di tanti nostri indignati speciali, i quali pontificano sui giornali a favore dell'immigrazione ma poi non muovono un dito e se lo muovono è solo per fare i maestrini dalla penna rossa. La popolazione locale ha trovato i responsabili e li ha puniti senza tante chiacchiere. Il carcere è la riprovazione generale. Una foto, ognuno stringe tra le mani l'immagine che ritrae una delle giovani vittime, affissa ad ogni angolo della zona, così che si sappia bene di quale reato i tre si sono macchiati. Processi sommari, giustizia barbara che non garantisce alcuna tutela all'accusato? Può darsi, ma se guardo alla giustizia italiana, alla sua lentezza, alla sua incapacità di individuare i colpevoli e di punirli, alle sottigliezze del diritto romano, quasi quasi comincio a invidiare il diritto libico. Leggi l'editoriale di Maurizio Belpietro su Libero in edicola venerdì 30 agosto o acquista una copia digitale del quotidiano