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L'avvertimento del supermanager a Renzi: "Sveglia, la Merkel ci ha già fregati"

Giovanni Ruggiero
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Senza dubbio è uno degli uomini simbolo del capitalismo italiano: il suo bagaglio d' esperienza in campo finanziario - spiccano i 25 anni passati ai vertici della Fiat - non ha forse pari e anche oggi, a 92 anni - seppur con qualche piccolo acciacco legato all' età - ha ancora una grinta e un entusiasmo da fare invidia a un giovane laureato. Cesare Romiti, da anni si divide tra Roma, città nella quale abita, e Milano in cui da 13 anni si dedica anima e corpo alla sua ultima creatura: la Fondazione Italia-Cina. Un' organizzazione senza fini di lucro che punta a migliorare la nostra immagine e presenza in Cina e a realizzare nel Paese del Dragone un diverso posizionamento strategico-commerciale del Belpaese. Lo incontriamo a pochi passi dal Duomo e da quello che storicamente è considerato "il salotto buono" della finanza italiana, Mediobanca, dove, in un palazzo d' epoca c' è appunto la sede della Fondazione. Ha appena partecipato a una conferenza stampa. Presidente Romiti, ha appena finito di spiegare che per i cinesi l' Italia da sempre è considerata una meta d' attrazione dal punto di vista turistico, degli investimenti e della cultura. Ma davvero noi sappiamo sfruttare tutto questo interesse? «Direi di no. La nostra classe politica è da sempre disattenta nei confronti della Cina. E sì che parliamo della seconda maggiore economia del mondo alle spalle degli Usa. Una potenza che a breve si appresta a superare il colosso a stelle e strisce. Beh, nonostante questo l' Italia ha sempre sottovalutato la sua importanza». Ancor' oggi mi pare sia vista più come un nemico da combattere e tenere a distanza piuttosto che un' opportunità. «Ha ragione: e le confermo che solo negli ultimi anni l' atteggiamento degli imprenditori sta cambiando. Ricordo perfettamente un convegno organizzato a Brescia nel 2003, anno in cui ha avuto inizio l' avventura della Fondazione. Quel giorno al tavolo dei relatori c' era, tra gli altri, Mario Monti, che stava per terminare il suo mandato di Commissario Ue. Non potrò mai dimenticare l' avversione e la diffidenza di imprenditori e politici sentendoci parlare con entusiasmo della Cina. Da allora io e i miei collaboratori abbiamo dovuto faticare parecchio per far cambiare idea e atteggiamento. Parlare di Cina e di cinesi qui da noi è sempre stato complicato». Per far cambiare mentalità alla società occorrebbe forse una svolta culturale e l' intervento delle istituzioni. «Le istituzioni dovrebbero dare l' esempio, indicare la rotta. Dovrebbero… ma se poi vediamo che il premier Renzi nella sua ultima visita in Cina ha dedicato alle visite ufficiali a Pechino solo un pomeriggio, significa che c' è ancora molto da fare. Questa è la miopia di cui mi lamento. Quando ci va la cancelliera Merkel soltanto a Pechino passa più o meno una settimana e non è certo un caso se poi il 50% delle esportazioni europee in Cina viene dalla Germania e se i rapporti commerciali tra i due Paesi sono sempre più forti». È un errore di Renzi? «Di Renzi ma non solo: anche i precedenti governi, di qualsiasi colore fossero, hanno sottovalutato la Cina». E come si cambia questa mentalità? «Insistendo e con la testardaggine. Le faccio un altro esempio: in questi miei 40 anni di viaggi in Cina ho conosciuto tutti i primi ministri e presidenti che si sono succeduti. Tutti mi hanno sempre fatto presente che i nostri due Paesi sono accomunati dal fatto di essere due culture millenarie e per questo il Belpaese è sempre guardato con interesse sia per scambi economici ma anche culturali. Loro spingono per agevolare sempre di più i contatti e gli interscambi. E dunque perché non farlo?». Che impedimenti ci sono a che questo accada? «Verbalmente tutti sono d' accordo, ma bisogna poi che le istituzioni comincino a far qualcosa: insomma serve passare dalle parole ai fatti». Analizziamo l' Italia e la Cina da un altro punto di vista, quello della crescita economica. Se è vero che nell' ultimo periodo si è registrato un rallentamento, seppur fisiologico, del Dragone che continua comunque a correre, guardando l' Italia siamo di fronte a un' economia asfittica e bloccata. «Lo ripeto da anni, all' Italia servirebbe uno scossone forte. Simile a quello che io ho vissuto dopo la II guerra mondiale col Piano Marshall. Un moto d' orgoglio, un cambio di passo per far ritrovare coraggio e voglia di fare a tutti. Perché l' Italia va ricostruita». Si spieghi meglio. «Ogni giorno sentiamo di fiumi che esondano, territori che vengono distrutti dalla incuria di decenni, scuole che cadono a pezzi, terremoti e altre catastrofi naturali che devastano il Paese. Occorre comprendere che bisogna rimboccarsi le maniche e ricostruire questo Paese. E che per farlo non bastano più i fondi pubblici, servono quelli dei privati». Privati italiani o esteri? «Iniziamo da quelli italiani, gli altri arriveranno». Mi viene in mente la ristrutturazione del Colosseo finanziata da Diego Della Valle. Un' operazione molto criticata ed ostacolata. «Sì, ma quello è un altro problema: è la burocrazia. Altra grana che blocca il Paese». Passiamo all' attualità: giorni fa Pininfarina è passata nelle mani degli indiani di Mahindra. È l' ennesima azienda italiana che diventa straniera. Che ne pensa? «Sono sempre negativo. È un altro pezzo d' Italia che se ne va. Quello di Pinifarina è il passo successivo a quello che i cinesi hanno fatto con Pirelli. Si tratta di un movimento che si sta con concentrando sull' Italia perché all' estero siamo visti come un Paese debole». Un' ultima domanda sulla Fiat di Marchionne e sui cambiamenti che sta apportando. «Dopo tutti gli anni passati lì dentro (dice alzando le braccia e allontanandosi sorridendo, ndr) preferisco non commentare né parlare più di Fiat». Benedetta Vitetta

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