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Isis, i retroscena dei rapimenti: così torturano i loro ostaggi

di michele deroma venerdì 31 ottobre 2014

3' di lettura

Dall'agguato su un taxi fino all'omicidio, alla decapitazione e a quelle immagini tristemente note: un reportage del New York Times, firmato da Rukmini Callimachi rivela le diverse tappe del rapimento di James Foley e di altri ostaggi, avvenuti in Siria per mano dell'Isis, negli ultimi due anni. Diversi sono i retroscena, come l'utilizzo del waterboarding (pratica introdotta dal governo Bush) tra le torture: i tagliagole, dunque, si vendicano sugli occidentali con gli stessi metodi con cui sono stati interrogati. L'agguato - Foley e il suo compagno di viaggio, il fotogiornalista inglese John Cantlie, furono catturati il 22 novembre 2012. Entrarono in un Internet cafè per archiviare i loro pezzi, quando entrò un uomo, "li guardò con occhi cattivi - secondo il loro interprete siriano - e andò al computer, rimanendoci solo un minuto". Dopo oltre un'ora, Foley e Cantlie fermarono un taxi per farsi riaccompagnare in Turchia, ma furono catturati prima del confine, da uomini armati che seguivano quel taxi. In simili agguati, nei 14 mesi successivi - spiega Repubblica, che ha tradotto l'articolo del NYT - furono catturati almeno 23 stranieri, soprattutto giornalisti freelance (come lo stesso Foley) e operatori umanitari. La confisca del materiale - Gli ostaggi venivano subito interrogati: a loro venivano confiscati computer, cellulari e videocamere, e venivano chieste le password per accedere ai loro account. I rapitori scandagliavano i profili di Facebook, Skype e le mail, per trovare prove dei legami con l'inteligence e le forze armate dei Paesi occidentali: sul computer di Foley, per esempio, erano state trovate immagini di militari americani, scattate durante i soggiorni in Afghanistan e Iraq. La punizione per ogni presunto reato era la tortura, in particolare il waterboarding: proprio la pratica autorizzata e usata dall'amministrazione di George W. Bush, durante le guerre in Medio Oriente. La conversione - Foley si convertì all'Islam poco dopo la sua cattura, adottando il nome di Abu Hamza. Gli ex ostaggi raccontano che la maggior parte di loro scelse proprio la religione musulmana: Steven Sotloff, ebreo praticante, è una delle eccezioni. Foley era realmente affascinato dall'Islam, e grazie alla sua conversione convinta, le violenze nei suoi confronti erano cessate, e sia lui che il suo assistente Cantlie potevano muoversi liberamente per la cella. La negoziazione - Intanto i mesi passavano, e Foley, nonostante la conversione, rimaneva prigioniero, mentre l'Isis assumeva un ruolo dominante nel panorama politico siriano. Un ex ostaggio ha rivelato che i rapitori "stabilirono un ordine, in base alla facilità con cui pensavano di poter negoziare". I 23 prigionieri furono divisi in due gruppi, con le violenze peggiori ai danni degli americani e dei britannici, perché i loro governi non volevano trattare. Per loro, le condizioni peggiorarono sempre di più: giornate al buio, una tazza di cibo al giorno, una sola coperta da dividere con i compagni di cella. La fine - Intorno ad aprile, i miliziani islamici scelsero un ostaggio russo, Sergej Gorbunov, e gli spararono, mostrando l'omicidio agli ostaggi americani e britannici. "Questo è quello che vi succederà - dissero - se il vostro governo non pagherà". A giugno rimasero in sette, quattro americani e tre britannici: ad agosto i miliziani hanno prelevato Foley, gli hanno fatto indossare un paio di infradito di plastica (le stesse che tutti gli ostaggi, anche quelli poi liberati, indossavano per andare in bagno) e lo hanno portato in macchina su una collina fuori dalla cittadina di Raqqa. Lì lo uccisero, con le stesse modalità usate successivamente per Sotloff e Haines. Dei ventitré ostaggi originari, ora rimangono solo due americani (Kassig e una donna di cui non si conosce il nome), e l'inglese Cantlie.

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