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Javier Milei porta il dollaro in Argentina? Ecco le conseguenze

Gianclaudio Torlizzi*
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Peso bye bye? Agli occhi del mercato l’aspetto certamente più interessante dell’elezione dell’anarco-capitalista Javier Milei a presidente dell’Argentina sarà indubbiamente quello di capire il modo in cui attuerà l’annunciato processo di dollarizzazione: ossia l’abolizione della banca centrale e della valuta locale, il peso appunto, fiaccato da una galoppante inflazione (+142% a ottobre) e da un incontrollato impoverimento dell’economia. Per gli investitori internazionali l’eventuale adozione della valuta statunitense da parte del Governo argentino rappresenta una ghiotta opportunità. Far adottare a un Paese come l’Argentina una valuta il cui valore poggia su fondamentali completamente diversi, come quelli statunitensi, si tradurrà probabilmente in un’eccezionale opportunità di arbitraggio che spalancherà la porta a un marcato afflusso di capitali finanziari.

Il ritorno economico che Milei potrebbe ottenere nell’immediato, tuttavia, potrebbe tradursi nel medio termine in una trappola per il Paese. Se infatti adottare una valuta forte contribuisce a stroncare l’inflazione, dall’alto lato rischia di compromettere la competitività del Paese, aprendo a una crisi futura della bilancia dei pagamenti. Non è un caso se tutte le crisi dei paesi emergenti del secolo scorso (Brasile, Russia, Asia) siano passate per un ancoramento (pegging) delle rispettive valute sul dollaro.

 

 

 

LA CINA CI PROVA, A VUOTO

Ma a parte queste considerazioni, certamente incuriosisce che in una fase storica in cui va di moda parlare di de-dollarizzazione, vi sia chi persegua un percorso inverso. Ma ha veramente senso parlare di fine dell’egemonia della divisa statunitense come Mosca e Pechino vogliono far credere? Il tema è certamente affascinante. Ma chi attualmente prefigura uno scenario di declino del greenback non conosce le reali dinamiche in gioco. Il forte rialzo del dollaro nei confronti delle principali divise internazionali a cui si è assistito in questi ultimi 3 annidi sconvolgimenti sia sociali che economici che geopolitici già dovrebbe in realtà bastare a rimettere il discorso sui giusti binari. Ma se ciò non bastasse, allora vale la pena proporre qualche dato.

Se andiamo infatti ad analizzare i flussi finanziari nel mercato valutario, emerge come la quota di mercato del dollaro abbia raggiunto il livello record dell’88%. In seconda posizione si colloca la moneta unica che però passa in 10 anni dal 39% all’8%, evidenziando come sia più indicato probabilmente parlare di de-eurizzazione! Il tanto strombazzato yuan, la divisa cinese, che secondo alcuni osservatori sarebbe pronta oramai a soppiantare il dollaro, rimane confinata al 7%, seppur risulti in crescita negli ultimi 10 anni. In sostanza il mercato continua a ritenere l’infrastruttura finanziaria statunitense the only game in town. Per contro l’internalizzazione dello yuan sembra procedere a rilento, almeno fino a quando non verrà abolito il controllo dei capitali da parte del Governo di Pechino. Non è un caso se le transazioni in yuan nel circuito SWIFT si attestino oggi ad appena il 2,3% rispetto al 43% del dollaro e al 32% dell’euro. In parole povere, far a meno del dollaro Usa oggi equivarrebbe a caos e frammentazione.

 

 

 

DEBITO, ORO, SANZIONI

Ciò naturalmente non significa che la situazione non possa mutare. Il crescente indebitamento da parte degli Stati Uniti, se non verrà contenuto, potrebbe innescare una crisi del debito in grado di spingere le economie del Global South a reinvestire parte del loro surplus commerciale in altri asset, come per esempio l’oro. Non solo: a danneggiare il dollaro potrebbe giungere anche l’abuso dello strumento delle sanzioni. La decisione del G7 lo scorso annodi congelare le riserve in valuta estere detenute dalla banca centrale russa ha alimentato il processo di diversificazione valutaria da parte di alcune banche centrali. Ma nemmeno Pechino sta a guardare: approfittando della carenza di dollari sviluppatasi in questi ultimi due anni in concomitanza con la politica monetaria restrittiva adottata dalla Fed, il Governo cinese ha concesso ai Paesi in difficoltà finanziaria prestiti in yuan, chiedendo come collaterale in garanzia diritti di estrazione di miniere e giacimenti petroliferi nonché accesso alle infrastrutture commerciali come i porti. Certamente non bastano queste operazioni per sancire la fine dell’egemonia del dollaro, ma rappresenta un monito del fatto come, oltre alle regole, l’Occidente dovrà fornire al resto del mondo un esempio di prosperità e ricchezza per mantenere il suo primato.

*Fondatore di T-Commodity 

 

 

 

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