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Taiwan, l'isola dove il nostro futuro può naufragare

Un saggio spiega il ruolo centrale nell’equilibrio mondiale del Paese rivendicato dalla Cina. Una bomba a orologeria...
di Tommaso Lorenzini lunedì 19 maggio 2025

3' di lettura

C'è un luogo del pianeta che non tutti saprebbero indicare su una cartina ma sul quale periodicamente si accendono preoccupanti fari di crisi, quella Taiwan il cui status di indipendenza è «una ferita aperta per Pechino» e per cui il presidente della Repubblica popolare, Xi Jinping, ha emesso l’ordine alle proprie forze armate di essere «pronti a prenderla entro il 2027».

Ecco perché per i 23 milioni di taiwanesi fa una certa impressione leggere sui media internazionali che «se ci sarà una Terza guerra mondiale è lì che avrà inizio», ed è straniante «ascoltare gruppi di esperti, commentatori e politici parlare dite e dei tuoi concittadini come di un “problema”». Giochi di guerra che gli analisti si aspettano diventare molto reali: un assedio, forse l’invasione.

Per questo è utile addentrarci in Perché Taiwan conta. Breve storia di una piccola isola che decide il nostro futuro (Einaudi, pp. C’ 224, euro 18,50), firmato da Kerry Brown, docente di Studi cinesi e direttore dell’istituto Lau China al King’s College di Londra: un agile volume che ci porta dentro un’annosa questione che con gli anni si è cristallizata in una «ambiguità strategica» indispensabile per tenere in piedi i precari equilibri creatisi.

Una raffinata sequenza di mosse politiche concretizzate in uno «stallo salvifico» che nel vortice di minacce, avvertimenti, operazioni navali e sorvoli di cacciabombardieri, appare come «l’unica opzione per non precipitare in una crisi senza ritorno». E sì che quella che oggi è una delle grandi patate bollenti mondiali ha avuto una storia marginale fino al 1949.

Dopo tre anni di sanguinosa guerra civile, l’allora unitaria Repubblica di Cina si divise in due. I nazionalisti di Chiang furono sconfitti da Mao, ripararono sull’isola con due milioni di uomini armati fieramente intenzionati a tornare presto sul continente a riprendersi Pechino. La Storia è andata in maniera molto diversa, adesso è proprio la “casa madre” a voler mettere in pratica il desiderio di riunificazione: alle sue condizioni, naturalmente, ma nessuno sarebbe escluso dalle con seguenze.

L’agenzia Bloomberg ha stimato il costo della possibile invasione in 10 trilioni di dollari, a carico dell’intero pianeta, visto che un conflitto sull’isola significherebbe l’interruzione della catena di approvvigionamento dei più avanzati microchip (oltre il 90% dei semiconduttori che alimentano l’economia di tutti sono prodotti qui): dunque stop ai telefonini, stop ai pc, stop a gran parte delle apparecchiature elettroniche. Mercati e mondo del lavoro a picco. Senza contare che Taiwan è il luogo dove le due superpotenze dominanti della nostra era (Usa e Cina) si fronteggiano: non soltanto il palcoscenico per una brutale dimostrazione di forza militare dall’esito imprevedibilmente catastrofico, ma anche lo scontro fra modelli sociali, politici. E di idee.

LA DIPENDENZA

Un libro dunque che intende raccontare questo teatro di non-guerra dall’interno verso l’esterno, capovolgendo il consueto punto di vista, sfruttando l’esperienza sul campo di Brown, che ha vissuto e si occupa di Cina e Taiwan dal 1991. A partire dalla “strana dipendenza” della stessa isola nei riguardi del possibile Paese invasore: uno stato di costante paradosso poiché la più grande fonte di minaccia per Taipei è anche la maggiore fonte di ricchezza (verso Pechino e Hong Kong è diretto il 42% dell’export taiwanese).

Fra i numerosi studi che documentano la tangibile incertezza con la quale i taiwanesi giudicano la loro identità (e situazione), vale forse più di tutti il sondaggio del Pew Reserarch Center: «Condotto tra il 2023 e il 2024, ha mostrato che solo il 3 per cento degli intervistati dichiara di sentirsi prima di tutto cinese, il 28 per cento dice di sentirsi sia cinese sia taiwanese e un significativo 67 per cento afferma di considerarsi esclusivamente taiwanese». Alla domanda «Si sente emotivamente legato alla Cina?», la risposta «è ancora più netta, ossia negativa per l’85 per cento degli intervistati».

Un’ evoluzione dell’opinione pubblica facilmente riscontrabile con l’esito delle ricerche della National Chengchi University di Taipei. «Nel 1992, ai tempi della prima fase dell’indagine, il 17 per cento dichiarava di essere taiwanese e il 25 per cento di essere cinese, mentre il 46 per cento affermava di essere entrambe le cose». Da allora è evidente come «lo spostamento del sentire comune è stato di portata sismica e decisiva. In una situazione dove tante cose sono ambigue e spesso volutamente confuse, questo è molto evidente: dal 2000, le inchieste mostrano incostante crescita il dato che, in qualunque modo i taiwanesi definiscano se stessi, essere soltanto cinesi non è un’opzione». La diagnosi è dunque piuttosto semplice per la polveriera Taiwan: situazione altamente pericolosa, maneggiare con cura.

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