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La Polonia va a destra: perché gli europeisti sono stati sconfitti

Premiato l’indipendente "populista" e "sovranista". L’elettorato cattolico non crede al "moderato" Trzaskowski
di Marco Patricelli martedì 3 giugno 2025

3' di lettura

Il sindaco di Varsavia Rafal Trzaskowski è entrato papa ed è uscito cardinale dalla notte insonne della Repubblica di Polonia. La missione impossibile del rivale Karol Nawrocki si è compiuta all’alba, che con le prime luci ha spazzato via i sogni di Donald Tusk, i sondaggi e l’exit poll e con una manciata di voti e un colpo di reni ha ribaltato le previsioni. Era stato profetico quando, all’incauto e prematuro brindisi dell’antagonista, che alla chiusura dei seggi domenica sera si era proclamato vincitore, aveva ammonito: «Vinceremo nella notte e salveremo il Paese».

Se, come e da chi “salverà” la Polonia è tutto da vedere, ma che abbia vinto al di là di ogni ragionevole dubbio e di una maggioranza non ampia (50,89%) ma sufficiente è un dato di fatto. Se il candidato di Piattaforma civica (Po) Trzaskowski, al secondo stop nella corsa presidenziale (aveva perso di poco anche con Andrzej Duda) mastica amaro, è puro fiele la coppa servita dal responso delle urne al capo del governo ultraeuropeista Donald Tusk.

È lui il grande sconfitto, artefice della scelta di un candidato forte come il sindaco di Varsavia, gran manovratore nelle retrovie della politica nazionale ed europea, in palese difficoltà per la mordacchia di un presidente della Repubblica come Andrzej Duda, dell’altra sponda politica, che ha esercitato il diritto costituzionale di veto su diversi progetti di riforma che smantellavano quelle dei conservatori di Libertà e giustizia (PiS). Un copione che si riproporrà pari pari con Nawrocki, non solo per contrapposizione partitica ma altresì per i toni della campagna elettorale e mediatica.

Il diritto di veto in Polonia è radicato. Ai tempi del regno, elettivo, i componenti della nobiltà (Szlachta), in nome della parità tra eguali potevano esercitare il liberum veto e bloccare l’attività parlamentare: bastava un solo voto, e l’ingovernabilità era garantita. Nella repubblica moderna è il presidente a poter esercitare il veto, superabile con una maggioranza parlamentare dei tre quinti che però Tusk non ha. Ecco perché per lui era indispensabile un presidente di scuderia, e quindi non ha lesinato alcun tipo di appoggio al sindaco di Varsavia.

E invece, da indipendente spinto dal PiS, ecco uscire alla distanza e vincere sul filo di lana lo storico Nawrocki, presidente dell’Istituto nazionale della memoria, dipinto come populista, sovranista e nazionalista e pure stranamente indicato dalla stampa nostrana come russofilo (il che, detto di un polacco, è una contraddizione in termini). Quarantadue anni, è diretto nei modi e più chiaro nell’esprimere le sue idee, arrivate a una base elettorale più larga, seppure di poco e al fotofinish. Trzaskowski è andato più forte nelle grandi città e si è aggiudicato dieci dei sedici voivodati in cui è suddivisa la Polonia, ma Nawrocki ha raggranellato voti in quelli più popolosi, nell’est del Paese e nelle aree rurali. Per lui hanno votato più uomini che donne, giovani di età inferiore ai 40 anni e ultrasessantenni.

L’alta affluenza alle urne (71,63%) ha smentito i sondaggisti, che avevano previsto un successo del candidato governativo al quale il conservatore aveva recuperato posizioni su posizioni. Trzaskowski in campagna elettorale aveva giocoforza corretto il tiro su temi sensibili per l’opinione pubblica polacca, come aborto, unioni civili, Lgbtq+, Chiesa, e persino sull’immigrazione irregolare, problema non secondario, anche per la guerra russo-ucraina alle porte di casa.

Persino Tusk, sul tema, ha dovuto correre affannosamente in aiuto a Trzaskowski, con la sponda non neutra di Bruxelles che ha “sorvolato” sulla contrarietà polacca al Patto sulle migrazioni espressa dal capo del governo, preannunciando che non avrebbe aperto la procedura di infrazione in caso di mancata applicazione. L’UE con un giro di valzer si è subito allineata al nuovo corso di Varsavia. Ursula von der Leyen ha speso parole al miele per il neo capo dello Stato che non ama le ingerenze dell'Europa, esprimendo la sua fiducia nel proseguimento dell’«ottima cooperazione» con la Polonia che rende a suo dire l’Unione «più forte». Come nulla fosse accaduto, nel nome supremo della Realpolitik. Non a caso, una parola tedesca.

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