Un voto storico, su una questione delicata e divisiva, che potrebbe tra l’altro non essere del tutto definitivo: la Camera dei Comuni britannica martedì sera ha approvato, con 379 voti favorevoli e 137 contrari, un primo emendamento alla normativa in vigore in Inghilterra e Galles, introducendo la depenalizzazione dell’aborto in qualsiasi fase della gestazione e per qualsiasi motivo. Il diritto all’interruzione della gravidanza è già garantito dall’Abortion Act del 1967 che fissa a 24 settimane il limite entro cui intervenire e con il benestare di due medici: allo stesso tempo, le donne che scelgono di abortire dopo il limite delle 24 settimane in assenza di rischi perla loro salute fisica o mentale o di gravi malformazioni del feto corrono il rischio di incriminazioni in base ad una norma di epoca vittoriana, l’Offences Against the Person Act del 1861.
I partiti hanno lasciato libertà di voto ai rappresentanti e la modifica, di cui si è fatta promotrice la deputata laburista Tonia Antoniazzi, è stata ritenuta necessaria per far fronte all’aumento del numero di incriminazioni registrato negli ultimi anni: 104 casi del 2019 con un’accelerazione in periodo pandemico per la prescrizione da remoto delle pillole abortive da poter assumere a casa entro le 10 settimane dall’inizio della gestazione: limite rimosso, purché dietro prescrizione medica. Lo scontro di posizioni che ha preceduto la votazione è destinato a restare ancora acceso. Se il primo ministro Keir Starmer, dal G7 in Canada, ha ribadito la sua posizione «per il diritto ad un aborto sicuro e legale», Shabana Mahmood, segretaria alla Giustizia del governo laburista, ha manifestato perplessità che riassumono quelle degli oppositori: in una lettera agli elettori del suo seggio, ha sottolineato che «un’estensione dell’aborto fino al momento del parto oltre le eccezioni attualmente previste non sarebbe solo inutile, ma anche pericoloso».
Mentre per l’organizzazione British Pregnancy Advisory Service si tratta di un «progresso storico» per i diritti delle donne, la Society for the Protection of Unborn Children ha messo in guardia sul rischio che l’emendamento porterà ad interruzioni «addirittura a pochi momenti prima della nascita», richiamando quanto accade in Nuova Zelanda e nello stato australiano di Victoria, dove la depenalizzazione è già consolidata, con un incremento degli aborti nelle fasi avanzate della gestazione. L’iter legislativo non è nemmeno concluso e potrebbe riservare altri cambiamenti: il passaggio ai Comuni rientra in più ampio disegno di legge sulla giustizia penale che sarà sottoposto al vaglio della Camera dei Lord. Malumori emergono anche dalla sfera femminista e a spiccare è la presa di posizione della filosofa Kathleen Stock, costretta nel 2021 ad abbandonare la cattedra all’Università del Sussex per un contrasto con i vertici dell’ateneo per le sue posizioni critiche sulle politiche interne in materia di diritti per gli studenti transessuali. Stock ha criticato la mancanza di un vero confronto pubblico, sostituito da «femminismo iper-liberale e tecnocrazia progressista» che hanno invaso il dibattito. Di tutt’altro avviso Heidi Stewart, direttrice generale di British Pregnancy Advisory Service, che ha ricordato la vicenda di Nicola Parker, che durante il lockdown per Covid-19 nel novembre 2020 assunse farmaci abortivi prescritti quando era incinta di circa 26 settimane, quindi oltre il limite legale delle 10 settimane: inizialmente incriminata, è stata infine prosciolta lo scorso maggio. Resta fuori dall’azione legislativa la Scozia, dove comunque è in vigore la legge del 1967, ma che potrà intervenire autonomamente per via delle competenze attribuite all’assemblea di Edimburgo.