Le webcam che inquadrano il Grossglockner riescono a riprendere tutto, anche se a distanza. Lassù, a quasi 3.798 metri d’altezza, sulla montagna più alta (e insidiosa) d’Austria, a una cinquantina di metri dalla vetta, che a fondovalle sembrano una sciocchezza ma in quota fanno tutta la differenza del mondo, Thomas Plamberger e Kerstin Gurtner sono due lucine che avanzano a fatica. È circa un anno fa, è buio, è freddo, è inverno. È una situazione che si complica ogni minuto che passa. Non lo sanno, questi due alpinisti trentenni (lui ha 36 anni, lei ne a 33), che la loro impresa sta per tramutarsi in una doppia tragedia: Gurtner morirà lì, assiderata, in balia dei venti gelidi delle Alpi; Plamberger finirà a processo per omicidio colposo dopo averla abbandonata in «grave negligenza» all’addiaccio ed essere corso a chiamare i soccorsi «con circa due ore di ritardo». È una giustizia che fa discutere, quella austriaca. Perché sì, da una parte uno se lo ripete: perché, come è stato possibile? Fare piena luce è d’obbligo, ci mancherebbe. Ma dall’altra è umano, è comprensibile: è quando rischi la pelle per davvero che ti dai una mossa. Quand’è che provi il tutto e per tutto, che speri nel miracolo, mi-raccomando-tu-resisti, se non nel momento in cui stai perdendo ogni cosa? Che avrebbe dovuto fare, questo scalatore esperto, questo ragazzotto allenato e preparato, se non tentare l’impossibile, agire di fretta, affidarsi (e affidare la propria fidanzata) alla sorte?
La montagna fa così. La montagna è una madre matrigna, un po’ stronza e infinitamente rischiosa. Sa essere limpida come il cielo terso delle giornate d’estate, ma non perdona l’impreparazione, la sciatteria, il mancato rispetto. Mentre avanzano verso la cima, quelle torce accese che sono Plamberger e Gurtner tentennano. Davanti c’è lui, lei lo segue con poca sicurezza. Tra l’altro la ragazza non è vestita in maniera adeguata e questo, per due alpinisti, per il suo compagno provetto, è un errore imperdonabile. È vero, avrebbe dovuto intuirlo allora, avrebbe dovuto impedirle l’ascesa: epperò sono già a buon punto, mancano 46 metri al cocuzzolo e sta calando la notte. Sono le 20 del 18 gennaio (secondo la ricostruzione delle autorità austriache). Improvvisamente si alza una bufera. Il secondo sbaglio che compie Plamberger è non chiamare i soccorsi subito e, invece, scegliere di proseguire. Quando Gurtner non ce la fa proprio più opta per lasciarla, fa dietrofront, torna al rifugio dal quale sono partiti e lancia l’sos. Il problema è che la 33enne è in una morsa di ghiaccio, il termometro segna punte di meno otto gradi (che vuol dire percepiti meno venti) e, siccome non è attrezzata con un bivacco d’emergenza, siccome oramai è passata la mezzanotte, siccome trascorrono due ore mentre lei è letteralmente bloccata nella neve senza un sacco a pelo o una coperta termica, alle 10 del mattino successivo, l’elisoccorso rosso del servizio austriaco la ritrova già deceduta.
È stato «un fatale incidente», sostengono adesso i legali di Plamberger. Hanno deciso assieme, di comune accordo, di dividersi. Era l’unica speranza per tornare a casa. Ha agito senza le cautele del caso, rimbottano invece i giudici d’oltralpe, il ragazzo rischia una pena fino a tre anni di carcere. «Quando succedono casi analoghi gli errori sono stati compiuti in precedenza», spiega Alberto Pirovano, che è il coordinatore dell’Osservatorio nazionale sugli incidenti in montagna del Cai, il Club alpino italiano: «Esistono tre tipi di prevenzione. Quella primaria che si fa con la programmazione, quella secondaria che riguarda la ripetizione di un incidente e quella terziaria che è la prevenzione dell’aggravamento della situazione. Queste tipologie di casi capitano, purtroppo, troppo spesso anche perché uno pensa che la copertura dei telefoni sia ottimale ma non sempre lo è. Anzi. Conviene investire in dispositivi di sicurezza, magari anche satellitari».
Chiarito questo, la domanda da un milione di dollari, il nodo principale, il dilemma quasi filosofico-esistenziale rimane: ma quando succede, corna e speriamo di no, però purtroppo succede, cosa si fa? Si resta in coppia, in cordata, l’unione-fa-la-forza, o ci si divide confidando nel raddoppio delle possibilità di salvezza? «La casistica è molto ampia e ormai consolidata», continua Pirovano: «È evidente che uno deve fare il possibile per salvare l’altro, ma fin quando questo non comporta il mettere a rischio la propria vita perché, altrimenti, si corre il rischio di dover contare alla fine, è brutto da dire ma è così, non una bensì due vittime. È una scelta difficilissima», che non lascia indifferenti, che non si prende mai a cuor leggero, che (con ogni probabilità succederà anche a Plamberger) ci si porta appresso per una vita intera.