La guerra in Ucraina è un dramma europeo che non finisce perché l’Europa non ha risolto ancora la sua crisi e non ha realmente deciso che cosa fare di fronte alla Russia e alle sfide lanciate dall’amministrazione Trump. Il conflitto va avanti da 1277 giorni perché prima di tutto non c’è una svolta europea, nella sua politica e nei suoi metodi di governo.
Emmanuel Macron non ha preso bene le parole di Matteo Salvini sulla guerra, ma la sua reazione da Re Solo non fa altro che evidenziare il problema, l’assenza di una risposta alla domanda «che fare»? Sulla questione dell’invio delle truppe Salvini ha espresso un’idea che nella sostanza è condivisa da buona parte delle cancellerie europee e trova ragioni robuste nelle analisi di esperti che hanno ben chiaro cosa significa un impegno militare in Ucraina. Il negoziato con la Russia è di nuovo in stallo, Putin vede un’Europa debole, incerta, divisa, bellicosa a parole e nello stesso tempo incapace di portare avanti un’azione diplomatica. Trump ci ha provato, continuerà a fare tentativi, ma senza una linea chiara con Mosca (e gli Stati Uniti) non si andrà lontano, anzi ci sono nuvole plumbee all’orizzonte.
Macron è il testimone di una crisi, fa il contorsionista di fronte a un dilemma che non è quello del carro armato, ma della politica e dell’establishment che guida l’Unione europea ancora con il “pilota automatico”.
Mario Draghi l’altro ieri al Meeting di Rimini ha detto che «per anni l'Unione Europea ha creduto che la dimensione economica, con 450 milioni di consumatori, portasse con sé potere geopolitico e nelle relazioni commerciali internazionali. Quest’anno sarà ricordato come l’anno, in cui questa illusione è evaporata». Le illusioni però hanno tempi di formazione lunghi, si sedimentano, diventano certezze e, appunto, “pilota automatico” delle istituzioni (comprese le banche centrali), mentre nell’analisi di Draghi siamo catapultati in un presente senza passato, ma la Storia ha un peso infinito, lo Spirito del Tempo è l’elemento chiave di ieri, oggi e soprattutto domani.
La crisi dell’Unione non è iniziata ieri, ma oltre dieci anni fa, quando il secondo mandato di Barack Obama ha manifestato evidenti segni di stanchezza (e confusione, vedere le primavere arabe, la Libia e la Siria) e l’America profonda ha preparato il terreno della prima vittoria di Donald Trump nel 2016. In quel periodo, altri due fenomeni hanno preso la scena: la vittoria alle elezioni presidenziali francesi di Emmanuel Macron, proprio lui, un prodotto del laboratorio politico dell’establishment parigino che ha aperto la crisi del Partito socialista e la sua successiva «melanchonizzazione»; lo shock del referendum sulla Brexit, che ha separato il Regno Unito dall’Unione europea e avviato l’era del malessere del sistema bipolare inglese, con i Conservatori e i Laburisti che oggi nei sondaggi sono superati nettamente (10 punti) dal Reform Uk di Nigel Farage.
Le tre culle della rivoluzione democratica - Washington, Londra e Parigi - sono state scosse da cambiamenti radicali, mentre a Bruxelles è continuato il tran tran dell’asse tra Francia e Germania, ma in assenza del Regno Unito e con un altro cambiamento alle porte, quello arrivato nel 2022 con l’arrivo di Giorgia Meloni a Palazzo Chigi.
A Bruxelles non hanno visto arrivare la Storia. Per soprammercato, fuori dall’Europa, nel lontano Oriente, hanno mancato l’appuntamento con la rivoluzione confuciana della Cina di Xi Jinping. I leader europei hanno continuato a negoziare con Pechino la delocalizzazione della produzione, mentre in realtà i cinesi erano impegnati in una “lunga marcia” per neutralizzare (e incorporare) la nostra manifattura, invadere il mercato con i loro prodotti ad alto valore aggiunto e costo più basso. Un suicidio economico che è diventato chiaro quando il Celeste Impero ha varato una stretta sulle materie prime strategiche, agito in maniera aggressiva sul prezzo, imposto i suoi tempi sulla catena della produzione globale.
Il risultato è che all’apertura di un nuovo ciclo storico non è corrisposto un cambiamento reale nella politica dell’Unione. L’agonia è stata prolungata da un altro errore grave delle classi dirigenti europee che nel 2020 hanno pensato che la vittoria accidentale di Joe Biden (in pieno “stato d’eccezione”, con la pandemia e il voto postale di massa) avesse archiviato il trumpismo. Ricordo i commenti, il tenore era «l’America è tornata, Joe è uno dei nostri». La realtà è che il suo mandato presidenziale è stato un disastro, Biden non aveva le energie e la lucidità per guidare l’Occidente (è stato coperto il suo declino psicofisico fino al crac nel dibattito presidenziale con Trump che ha portato alla sua brutale sostituzione a campagna in corso), si è ritirato dall’Afghanistan senza un disegno per l’Asia Centrale e il Medio Oriente, concedendo alla Russia l’occasione che aspettava per invadere l’Ucraina, mentre con i sussidi previsti dall’Inflation Reduction Act (IRA) la Casa Bianca ha varato una politica economica che ha penalizzato le industrie del Vecchio Continente e avviato una fuga degli investimenti dall’Europa verso gli Stati Uniti.
Stupirsi per i dazi di Trump e dimenticare l’IRA di Biden è un atto di doppio-pesismo insostenibile. Tutto questo è avvenuto nel mutismo generale dell’establishment europeo- con proteste episodiche subito rimesse nel cassetto - così in pieno sonnambulismo si è lasciata scivolare l’Europa verso l’irrilevanza, la fine dell’illusione di cui ha parlato Draghi viene da lontano, riguarda un’intera generazione, è il frutto avvelenato della crisi dei progressisti, della loro bancarotta culturale e politica, a cui si è aggiunta la collaborazione decisiva dei presunti centristi illuminati.
Poi è tornato Trump. Ma prima è tornata la Russia, quella di Putin che la Germania di Merkel pensava di tenere agganciata all’Europa con la “politica del tubo”, il gas di Mosca che ha alimentato la locomotiva tedesca.
La guerra in Ucraina è una conseguenza di questa crisi politica e culturale che ha scosso l’Europa e gli Stati Uniti, la Russia di Putin vi si è incuneata, secondo una secolare tradizione che va avanti dai tempi degli Zar, tutta la sua politica estera continua sulla scia della dottrina di Alexander Gorchakov, il principe della diplomazia di Mosca, il nome con il quale la storia gioca a dadi, Gorchakov fu colui che trattò e concluse nel 1867 per lo Zar la vendita dell’Alaska agli Stati Uniti. È il ciclo dell’eterno ritorno della storia, dove c’è una crisi, Mosca si catapulta per trarne vantaggio. Macron apre la sua scatola magica e fa incredibili fughe in avanti, promuove riunioni dei volenterosi senza volontà, il suo ego lo precede, la sua insicurezza lo insegue.
Nell’altra grande crisi del presente, la guerra a Gaza, ha dichiarato senza consultare nessuno che la Francia riconoscerà la Palestina. «Parbleu», il risultato di tanto attivismo macroniano è stato che Hamas ha colto l’occasione al volo per cercare di trarre il massimo vantaggio politico, mentre il governo israeliano a quel punto ha pianificato nuovi insediamenti in Cisgiordania e preparato i piani per l’invasione totale di Gaza. A Parigi sono diventati imbattibili nell’apertura dei fiaschi. La Francia non è un impero, Macron non è Napoleone, l’Europa non è, la Storia alla fine presenta il conto.