Cino Ricci, quasi ci siamo. Il 4 settembre saranno 80 anni. Auguri. «Grazie, ma non ci faccio caso. Non festeggiavo da bambino, figuriamoci ora». Beh, però 80 sono una bella cifra. «Non ho nessun merito. Solo la fortuna di essere sano. E di aver vissuto intensamente». Già. La guerra, il mare, la vela, Azzurra, amicizie importanti: lei si racconta nel libro Odiavo i velisti scritto con Fabio Pozzo. Un bel regalo di compleanno. «No guardi, il fatto che sia uscito ora è una coincidenza. Fabio ha iniziato a rompermi le scatole cinque anni fa. Ma non volevo. Poi, piano piano, mi ha convinto». Come? «Facendomi leggere articoli che mi riguardavano e raccontavano i fatti in maniera distorta. Non reale». Un esempio? «La tendenza a dare i meriti dei successi di Azzurra all’Aga Khan, per esempio. Quando, invece, la scintilla che ha fatto nascere tutto è stato l’incontro con l’Avvocato». Poi raccontiamo di Agnelli. Ora restiamo al libro: il titolo è curioso. «I velisti all’inizio mi stavano sulle palle, con le loro scuole di vela di élite. Io sono nato a Rimini, le barche le ho conosciute con i pescatori». Ci va ancora a vela? «No, ho il rigetto. Non ne ho più voglia e non mi manca, si è come spenta la luce». Cosa fa ora? «Il contadino. Mi sono trasferito in campagna a San Savino, frazione di Predappio». Dal mare alla terra, un bel cambiamento. «Ho sempre fatto così nella vita. Quando mi sono stufato di una passione l’ho lasciata. Dei miei 80 anni non cambierei nulla. Sono stato fortunato, ho conosciuto le persone giuste nei momenti giusti». Come Gianni Agnelli. Ricorda la prima volta che l’ha visto? «No. Perché per me lui era uno come gli altri. Non avevo soggezione. Sa, io non ho mai avuto padroni e non mi sono mai sentito inferiore a nessuno». Parliamone, dell’Avvocato. «Era il re d’Italia, con le dovute virgolette. Affascinante e ironico. Anzi, autoironico: scherzava molto su se stesso e ti metteva a proprio agio». Gli dava del lei? «Sempre e lui mi chiamava comandante. Oppure Vicci. Sa, la erre moscia…». Agnelli e la passione per le barche. Nel libro ci sono aneddoti meravigliosi. «Quando veniva agli allenamenti di Azzurra, a Porto Cervo, saliva a bordo, si metteva al timone e spingeva la barca nel vento, per poi tuffarsi in mare quando ne aveva avuto abbastanza. Ci seguiva il suo motoscafo, che lo recuperava. Ma quella volta a Newport...». Racconti. «Un giorno, con lui, c’è un americano che lo segue a bordo. Solito copione, dopo un po' Agnelli si tuffa, noi non battiamo ciglio. L’ospite, invece resta stupito. È vestito di tutto punto, non sa che fare, gli leggo negli occhi il dramma. Lo guardo: “Noi andiamo avanti ancora per un paio d’ore, dobbiamo terminare la seduta di allenamento”. Lui ci pensa su. Poi si toglie la giacca e, con le scarpe in mano, si lascia scivolare in acqua per essere recuperato e raggiungere Agnelli». Buona questa. Altri ricordi divertenti? «Una volta l’Avvocato mi manda in America il nipote, Giovannino, il figlio di Umberto. “Che faccio?”, mi chiede il ragazzo appena arrivato. “Intanto vai a mangiare con gli altri”, gli dico. Si siede davanti a Franco Zamorani. “E tu chi sei?”, domanda il mio tailer. “Sono Giovanni Agnelli”. Al che Zamo si alza in piedi e, non conoscendolo, dice alla sala: “Ragazzi, qui abbiamo Giovanni Agnelli truccato!”». L’Avvocato aveva anche un barca sua, l’Extra-beat. «Lo sloop più grande del mondo, quasi 36 metri. Più di una volta Agnelli mi telefona: “Vicci, venga che usciamo con l’Extra-beat”. Parto da Forlì e vado in auto all’aeroporto di Caselle: mi aspetta un aereo privato. Volo fino a Vigo, in Spagna, dove la barca era ormeggiata, e poi via in mare». Scusi, perché ride? «All’Avvocato piace lanciare la barca a tutta velocità e puntare la prua sulle navi in rada per schivarle all’ultimo istante. Rischiando grosso e facendo incavolare la Capitaneria locale. Una volta esagera e ci inseguono con una motovedetta. Quando i militari vedono chi c’è al timone, però, si limitano a salutare: “Buona permanenza”». Grande passione per la velocità, verrebbe da dire. «E non solo in barca. Senta questa. Una domenica sono a casa di Agnelli a Torino, in collina, e chiede se lo accompagno a vedere la Juve. Saliamo in macchina, una Fiat Regata, guida lui. E...». Spericolato? «Fa le discese come un pazzo, a una velocità folle. Io mi tengo con una mano alla maniglia del tetto e con l’altra le palle. Arriviamo a un incrocio, il semaforo è rosso. Accelera e passa, proprio mentre dall’altra parte arriva una 126. Frenata pazzesca, non ci schiantiamo per un miracolo. L’altro conducente è pallido, si sporge e quando vede l’Avvocato diventa ancora più bianco. Non dice nulla e fa quasi un inchino con il capo come per scusarsi». Cino, con l’avventura di Azzurra lei ha conosciuto anche l’Aga Khan. «Un vero principe. Ricco, cosmopolita, influente, guida spirituale dei musulmani ismailiti. Ma anche un uomo semplice: girava in maglietta, un po' sdrucita, su una vecchia Volkswagen». Appassionato di vela? «No. Ma di tecnologia sì: è stato il primo ad avere un telefono satellitare a bordo. Una volta salgo sulla sua barca e mi mostra orgoglioso come funziona il nuovo aggeggio. Siamo in plancia, a un metro l’uno dall’altro: il principe impugna il satellitare e chiama sul numero della barca, invitandomi a rispondere all’apparecchio fisso. Io eseguo e si crea una situazione paradossale: l’Aga Khan parla al satellitare, la sua voce rimbalza nello spazio e torna sulla Terra con qualche secondo di ritardo. E io lo sento parlare prima dal vivo». Tra i grandi che ha conosciuto c’è anche Raul Gardini. «Carissimo amico, ci davamo del tu». Differenze con Agnelli? «Gardini voleva lasciare un’impronta, aveva idee grandiose, innovative: voleva spostare tutti gli uffici pubblici e le imprese da Venezia a Marghera e rendere la Serenissima una città-monumento, per esempio. Agnelli l’impronta l’aveva già lasciata e si godeva ciò che aveva». Gardini era spendaccione? «No, non buttava soldi senza ragione. Ma aveva i suoi pallini, come la ricerca della perfezione anche nei dettagli». Tipo? «Le racconto questa. Andiamo a San Diego a vedere per la prima volta il “Moro di Venezia” che doveva partecipare all’America’s Cup. Scendiamo in banchina, ci incamminiamo verso la barca e appena Raul vede le lettere del nome a poppa si ferma. E va su tutte le furie. Chiama il responsabile. “Che cos’è quella lì?”. “La scritta che mi hai detto di fare, no? Color oro”. E lui: “Io ti avevo detto di farla d’oro, non color oro!”». Gardini si è suicidato il 23 luglio 1993. «Ero a Crotone. L’ultima volta l'avevo sentito i primi di giugno, era di buon umore. Ma il Natale prima, in vacanza, era giù. Preoccupato. E mi aveva detto: «Cino, io in galera non ci vado». Ricci, lei è diventato una star con Azzurra. America’s Cup 1983, una storica semifinale e gli italiani incollati al televisore. Cosa non dimenticherà mai di quell’avventura? «Il ritorno in Italia. All’aeroporto di Olbia c’era così tanta gente che ci hanno dovuti scortare. Lì ho capito che avevamo fatto qualcosa di straordinario». Ricci, ultime domande veloci. 1) Lei è un leader: il segreto per guidare l’equipaggio di Azzurra? «Stare sempre con i ragazzi e fare gruppo. Dando l’esempio in prima persona». 2) Nel suo libro non sono mai citate donne. Perché? «Le donne vanno bene a terra, non in barca. Una volta in tv ho detto che le donne a bordo portano sfiga ed è scoppiato il finimondo...». 3) Il sogno di ogni velista è la traversata atlantica. Quante ne ha fatte? «Sei o sette. Ma sono una gran rottura di palle, il tempo non passa mai. È come un viaggio in autostrada per un pilota di F1». 4) La barca dei sogni? «Non me ne sono mai innamorato di una in particolare». Ultimissima. Come si immagina tra dieci anni? «Rimbambito. O forse morto. Ma felice, perché nella vita ho fatto esperienze di ogni tipo». di Alessandro Dell'Orto